sabato 1 novembre 2025

Tra amore e lotta per il lavoro: “Era andata a finire così”, di Maddalena Vianello (su Solo Libri)

Ho scritto su Sololibri.net del romanzo di Maddalena Vianello, Era andata a finire così (Fandango Libri, 2025). Una storia di formazione al femminile tra amore e lotta per la dignità e la salute sui luoghi di lavoro. 

Link all'articolo Era andata a finire così






Diego Rivera, Detroit Industry South Wall Pharmaceutics, 1932-33














venerdì 31 ottobre 2025

Francesco Ciusa lo scultore, e pittore per una volta



Questo è l'unico dipinto dello scultore Francesco Ciusa - poco conosciuto, purtroppo, a livello nazionale. Nato a Nuoro nel 1883 e morto a Cagliari nel 1949. 
Ebbe un iniziale successo a soli 24 anni con La madre dell'ucciso esposto alla Biennale di Venezia del 1907 e poi, per diverse ragioni, è stato dimenticato. Tuttavia, merita anche per le altre opere. 

Il quadro in questione rappresenta un'antica tradizione sarda, la festa “de is animeddas”, quando, nella notte tra il 31 ottobre e il 1 novembre, i vivi, dopo aver consumato il pasto, lasciano la tavola imbandita per le anime dei defunti, che tornano durante la notte a far visita ai propri familiari. 

Non ci sono coltelli e forchette, e lo scopo era quello di non favorire i contrasti. Vediamo solo i piatti, i bicchieri, il vino e il pane, sotto una piccola fonte di luce che illumina soltanto il centro della scena.  Il resto è oscurità e silenzio, come si addice al tono e al momento della celebrazione. 
Il tema è dunque realistico, con riferimenti simbolisti (Elena Pontiggia, Ilisso, 2024).

Francesco Ciusa, La cena dei morti, olio su tela, 1910 ca., 105 x 109 cm, collezione privata (fonte immagine: sito internet Catalogo generale dei Beni Culturali).

Sotto, La madre dell'ucciso, di cui parlerò meglio in seguito. 




sabato 11 ottobre 2025

A Francis Bacon


Volto indecifrabile e ribelle, 
inafferrabile e presente. 
È brama di amore. È frutto di dolore. 
Pensieri nell'ombra si agitano 
lasciando piccole tracce
e grandi i passaggi. 
Osservatore instancabile, guarda
non visto. 
La gente cammina distratta dalla vita,
sorda, non saprà della magia. 
Scende la notte calma, 
e tu con lei. 


Francis Bacon, Autoritratto, 1969

venerdì 3 ottobre 2025

Il mondo di Ingeborg Bachmann


«Esisto solo quando scrivo, non sono nulla se non scrivo, sono estranea a me stessa, fuori di me se non scrivo» diceva Ingeborg Bachmann, poetessa e scrittrice austriaca nata nel 1926 e morta nel 1973 in circostanze drammatiche e mai del tutto chiarite, nella sua casa di Roma. Una frase che non venne pronunciata per fare colpo su qualcuno, non era nel suo stile, bensì detta con la consapevolezza che la scrittura non è né passatempo, né forma di egocentrismo. 

Nel saggio "L'uomo deve affrontare la verità" contenuto nella raccolta di scritti intitolata A occhi aperti, a cura di Barbara Agnese, edita quest'anno da Adelphi, troviamo dichiarato: 

«Compito dello scrittore non può essere quello di negare il dolore. Al contrario deve riconoscerlo e poi ancora restituirlo in quanto reale, in modo che noi possiamo vederlo». 

Scopo della letteratura e dell'arte è quindi togliere il velo, senza paure o ipocrisie. Bachmann non scriveva per compiacere, per avere l'approvazione altrui, quanto piuttosto per rispetto nei confronti delle parole. 

In Letteratura come utopia, testo utile per comprendere come considerava la letteratura, ovvero “Un’etica del pensiero” (Adelphi, 1993) esprimeva la sua verità:

«L'operare dello scrittore non sarebbe forse hybrid, e non dovrebbe egli diffidare di ogni parola, persino di se stesso?». Chi scrive dunque si esercita su una lingua utilizzata da altri e in tal modo se ne abbevera in un processo apocrifo e inevitabile. 

Negli anni della sua poliedrica attività, iniziata con i versi e conclusa con la prosa (passaggio tra l'altro affrontato dalla critica in vari studi) i suoi interventi anche radiofonici sono stati numerosi.
In linea col pensiero del filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein, suo connazionale, Bachmann riconosce che il mondo è ciò che può essere detto, ma è proprio nell’attrito con l’indicibile che la scrittura trova il suo slancio più radicale. Non c'è spazio per le questioni metafisiche o morali; nulla può la filosofia. Tale limitazione del dicibile a ciò che può essere dimostrato porta a un vuoto che non è più solo linguistico ma, per Bachmann, esistenziale. Ed è nel desiderio di superare questo ostacolo che si esplicita la sua personale visione, evocata nel titolo A occhi aperti. Non solo perché vi si trovano racchiusi diversi contributi su ciò che più la premevano – autori, tematiche, ma perché rivelano il suo animo di artista. Nell'articolo sul già citato Wittgenstein di cui aveva svolto la tesi di dottorato, vi è un'articolata disamina sugli enunciati sensati e insensati del linguaggio comune. Come ricorda Barbara Agnese nella postfazione: «L’intero percorso intellettuale di Bachmann è stato improntato all’etica del sospetto verso le frasi fatte». Ci sono inoltre e tra altri, Thomas Bernhard, Witold Gombrowicz, Kafka, Giuseppe Ungaretti, Sylvia Plath, nonché uno splendido omaggio a Maria Callas: «una che sa per certo cos’è un’espressione»; non poteva mancare il Gruppo 47, movimento culturale nato all’indomani della Seconda guerra mondiale con l’intento di risollevare le sorti della Germania e rigettare l’assunto della “colpa collettiva”, formato dalla migliore intellighenzia tedesca (oltre a lei, entrata nel 1952, ne hanno fatto parte per esempio, Paul Celan, Heinrich Böll, Günter Grass, Peter Handke, tuttora vivente). Presente altresì il profondo legame, per lei imprescindibile, fra poesia e musica. Entrambe appartengono cioè a un linguaggio universale e si appartengono l'una all'altra.

Sempre rigorosa e tersa, Ingeborg Bachmann.
«Ho sentito che nel mondo si ha più tempo che senno, ma anche che gli occhi ci sono dati per vedere» scrive a conclusione del racconto sull'esperienza di vita a Roma, inserito anch'esso nel libro. Città amata e osservata, fino all'ultimo, nella sua dignità, nella più intima essenza.

Anche su «Gli Stati Generali», link all'articolo Il mondo di Ingeborg Bachmann





Nell'immagine sopra, Ingeborg Bachmann. 






domenica 28 settembre 2025

“Il mago”, di John Fowles (su Sololibri)

In tempi in cui è difficile distinguere il vero dal falso ho scritto su Sololibri.net della versione definitiva del romanzo Il mago, di John Fowles (Safarà, 2025) conosciuto in Italia per La donna del tenente francese

Link all'articolo Il mago

        John Fowles (fonte amsaw.org) 

lunedì 15 settembre 2025

A lezione da Vladimir Nabokov

 


Da quest'anno anche nella versione elettronica, è ormai un classico della saggistica letteraria: Lezioni di Letteratura di Vladimir Nabokov. Una raccolta organica degli appunti e dei numerosi fascicoli preparatori delle lezioni in classe da lui tenute in America, dove arrivò nel 1940, ovvero il periodo in cui pensava di scrivere quello che poi diverrà il suo capolavoro, Lolita, completato nel 1953. Grazie alla moglie Véra e al figlio Dmitri è stato possibile concludere un lavoro, per così dire di assemblaggio, che ha portato a questo corposo libro e Fredson Bower, nella prefazione, specifica di non aspettarsi di trovare il lessico o la sintassi che il celebre scrittore russo avrebbe usato sapendo di farne un libro. Non è stato riscritto tutto alla lettera, sarebbe stato impossibile farlo, spiega. 

Nabokov approdò prima alla Stanford University e al Wellesley College; poi alla Cornell University a Ithaca dove fu nominato Associate Professor di letteratura slava e dove insegnò nel corso sui "Maestri della narrativa europea" e su "Letteratura russa in traduzione inglese". Furono gli anni trascorsi in quell’ultima accademia i più prolifici: terminò il memoriale autobiografico Parla, ricordo e fu nello stesso periodo che la moglie gli impedì di bruciare le prime pagine della sua opera più famosa con protagonista Humbert Humbert. Divenne infine Visiting Professor nel 1952 ad Harvard e nel 1958 abbandonò in modo definitivo l'insegnamento. In particolare, le lezioni qui riunite costituiscono il programma svolto al Wellesley e alla Cornell. Nel nostro Paese hanno fatto la loro prima comparsa nei primi anni Ottanta, poi Adelphi ha eseguito una rivisitazione nel 2018 con introduzione del Premio Pulitzer John Updike che si è occupato della parte biografica, mentre la traduzione è di Franca Pece. L'ultima edizione è del 2022. 

Vladimir Nabokov (1899-1977) era figlio di una antica e nobile famiglia di San Pietroburgo; crebbe in un ambiente colto e raffinato dove si parlava oltre al russo anche l'inglese, che conobbe meglio della sua lingua madre. La rivoluzione del 1917 costrinse tutti i membri a fuggire in Europa dove il giovane Vladmir poté proseguire gli studi. Si laureò infatti al Trinity College di Cambridge.

Visse in Francia e in Germania dove il padre, un noto politico, venne assassinato. Uomo eclettico e versatile, fu anche un bravo scacchista - non solo come giocatore ma anche come teorico - e un entomologo, nonché saggista e critico; è stato certamente influenzato dal genitore alla cultura occidentale, pur rimanendo fedele alla tradizione drammaturgica russa.

In esergo di Lezioni di Letteratura troviamo questa frase semplice e diretta:

«Il mio corso è, tra le altre cose, una sorta di indagine poliziesca sul mistero delle strutture letterarie».

Descrizione che rende l'idea del metodo-Nabokov: far ragionare gli studenti sui meccanismi letterari e su come e perché nasce una narrazione, e le sue annotazioni e i disegni presenti nel testo rendono più chiaro e visibile il lavoro certosino eseguito ogni volta. Non solo mappe a corredo. 

Sono sette «i giocattoli meravigliosi» europei sotto la sua lente di ingrandimento: Mansfield Park di Jane Austen, l'Ulisse di Joyce, Casa desolata di Charles Dickens; Gustave Flaubert con Madame Bovary, Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr Hyde di Stevenson, il primo volume della Recherche di Proust, Dalla parte di Swann, e La Metamorfosi di Kafka, con opportuni confronti a Gogol' e Tolstoj.


Con vivacità scompone e ricompone ognuna di queste individuando le tecniche utilizzate, due su tutte la cosiddetta “mossa del cavallo”, ripresa dall'esperienza col gioco degli scacchi, o quella del “contrappunto”, vale a dire lo spezzare con interruzioni o inserti paralleli due o più conversazioni o flussi di pensiero. Il discorso diretto e quello indiretto, anch'essi spiegati e mostrati con gli esempi. I personaggi, i temi e le ambientazioni, con gli elementi negativi e fallaci, le battute d'arresto o al contrario le basi solide su cui poggiano gli argomenti utilizzati dai romanzieri per raccontare le loro storie, comprese le influenze letterarie e il motivo per cui tali opere si devono considerare espressione di talento, ossia di consapevolezza letteraria. Com'è riuscito Dickens a tenere uniti protagonisti e avvenimenti mantenendoli vivi con costanza per tutto il tempo di una lunga narrazione oppure come il creatore di Jekyll e Hyde con una sola mirabile scena, quella della trasformazione, ha permesso al suo protagonista di entrare nella memoria collettiva, o Proust che ha saputo ricreare un intero mondo in retrospettiva attraverso personaggi dai molteplici aspetti, e così gli altri.

«Sebbene ogni essere umano abbia il proprio stile, l'unico su cui valga la pena soffermarsi è quello dello scrittore di genio, e il genio non può esprimersi nello stile letterario dello scrittore se egli non lo possiede nell'anima». 

Quindi se lo stile per Nabokov non si può insegnare, tutto il resto può e dev'essere oggetto di studio. Non si preoccupava più di tanto dei fatti d'interesse umano, era un anti freudiano, nè del senso comune ma solo dell'opera in quanto tale. Con ironia agli allievi diceva che il libro segue il suo destino e proprio come il destino che può essere imprevedibile, anche la vita di uno scrittore alle volte lo può essere, ricalcando la storia da lui stesso generata: come Tolstoj che trovò la morte presso una stazione ferroviaria seguendo le orme di Anna Karenina o come Stevenson quando gli venne un colpo apoplettico, e prima di morire ha detto: “Cosa succede, mi è cambiata la faccia?”.

I discorsi sempre arguti, a volte taglienti, ma da Nabokov nelle vesti di docente non ci si poteva aspettare nulla di diverso:

«La letteratura è invenzione. Le opere di fantasia rimangono sempre fantasia, e dire che un'opera di fantasia è una storia vera è un insulto sia all'arte che alla verità. Tutti i grandi scrittori sono grandi imbroglioni, proprio come quella grandissima imbrogliona della Natura».

Nemico dell'identificazione, riteneva che il vero lettore deve sapere quando e in che momento tenere a bada la propria immaginazione e per farlo deve conoscere il mondo che un autore gli pone perché «il romanzo non si deve leggere né col cuore e neanche col cervello ma con la spina dorsale». Non lascia spazio a dubbi o equivoci.

Lezioni di letteratura unisce l'utile al dilettevole in quanto valido strumento se ci si pone nell'ottica di acquisizione dello spirito critico nella lettura, e anche un libro appassionato e appassionante, per non dimenticare che la letteratura è arte e che un buon scrittore è innanzitutto un buon lettore. 

Anche su Gli Stati generali. Link all'articolo A lezione da Vladimir Nabokov









giovedì 4 settembre 2025

“L'emicrania” di Antonio Alatorre (su SoloLibri)

Ho scritto su Sololibri.net di L'emicrania di Antonio Alatorre. Non un manuale di medicina, bensì un memoir letterario di uno dei più importanti saggisti e critici messicani, tradotto per la prima volta in italiano. 

Link all'articolo L'emicrania



Antonio Alatorre (fonte foto, porcierto.com) 

martedì 26 agosto 2025

Il manifesto di Duchamp contro il conformismo

 


Prima o poi capita a tutti di trovarsi in un importante museo o galleria di qualche città e farsi largo tra la folla per riuscire a vedere un'opera famosa, mentre le altre che gli stanno intorno, se si fa caso, vengono ignorate dai più. 

Continua a leggere su «Gli Stati Generali». Link all'articolo Il manifesto di Duchamp contro il conformismo



lunedì 21 luglio 2025

Pensare da scrittori prima di esserlo. “La scrittura non si insegna”, di Vanni Santoni

 Forse non si può insegnare a scrivere, ma si può insegnare a pensare da scrittori e per farlo ci sono una serie di abitudini che è necessario acquisire. La prima è la più banale, eppure in quanto banale ha un fondamento pratico: leggere tanto, e ancora leggere, prendere appunti, ricopiare.

Parla di questo e di altro un breve saggio del 2020, ancora più attuale data la varietà di pubblicazioni a cui assistiamo ogni giorno, di Vanni Santoni, scrittore e docente alla Scuola del libro (Minimum Fax, Collana Filigrana). Il titolo è alquanto perentorio: La scrittura non si insegna ed è nato dall'esperienza di aver avuto troppi allievi che volevano scrivere senza aver letto abbastanza. Perché allora, si domanda e domanda Santoni, voler scrivere se non si è letti almeno Alla ricerca del tempo perduto di Proust e l'Ulisse di Joyce? Un interrogativo provocatorio ma neanche tanto se ci si pensa bene, semmai è pertinente. Tenendo conto che quanto abbiamo di fronte non è un manuale di scrittura creativa, bensì un pamphlet, e dunque per sua natura sfidante. Di per sé non è un male che tante persone vogliano scrivere, ma lo diventa quando si vuole scrivere e pubblicare senza cognizione di causa. Oltre ai due citati, l'autore elenca una serie di altri libri corposi, una trentina circa, da Roberto Bolaño a David Forster Wallace, da Sebald a Tolstoj e Dostoevskij, da Jane Austen a Borges, e altri da leggere una volta affinate le basi  e in relazione al genere a cui ci si vuole avvicinare. Questione di sensibilità che si apprende leggendo e scrivendo. Testi che ritiene imprescindibili per chi vuole scrivere seriamente. La scelta è ricaduta su dei capolavori non solo in quanto tali, ma perché in essi si celano variegate suggestioni dovute anche alle numerose pagine che li compongono. Opere imperfette, come vengono definite, perché capaci di provocare sommovimenti, dare consapevolezza delle infinite possibilità del romanzo contemporaneo. Quindi per esempio non Lo straniero di Camus in quanto «piccolo diamante che si può ammirare ma dal quale non è immediato imparare qualcosa».

È importante inoltre far parte di una comunità: confrontarsi, fondare una rivista o scrivervi per mettersi alla prova, conoscere o farsi conoscere. In sostanza, creare e dotarsi di una rete di interessi umanistici. Che non significa in seguito pubblicare un libro, sarebbe una ingenuità anche solo pensarlo. Può capitare ma anche no. Le variabili sono tante e l'editoria è impresa, settore economico. 

Dopo la scrittura c'è un ulteriore processo inevitabile ed è la revisione. In particolare farsi leggere da chi è al nostro livello, cioè da coloro che hanno più interesse a farlo per il fatto che lo facciamo o possiamo farlo noi con loro. Non amici o parenti, vuoi perché non intenditori, vuoi perché difficilmente vi diranno che quanto hanno appena letto non gli è piaciuto, e nemmeno rivolgersi, senza retribuirli, ai professionisti dell'editoria che proprio perché professionisti vanno pagati per il lavoro che svolgono. 

Se si vuole scrivere un romanzo bisogna aver chiaro, avverte ancora Vanni Santoni, che l'impegno è totalizzante; è la letteratura a imporlo. Deve prima diventare uno stile di vita. Se non ci si nutre di buone letture l'impresa è ardua. La scrittura infatti non è come comunemente si pensa un'attività facile da praticare. Ci si mette al computer e si aspetta la musa. Non è esattamente così. Si tratta di un'arte e l'arte richiede studio. L'arte richiede di eccellere. Averlo presente è un primo importante passo.




mercoledì 16 luglio 2025

Alla scoperta di Vali Myers: “Cara Vali”, di Chiara Centioni (su Solo Libri)

Ho scritto del romanzo Cara Vali, (Castelvecchi, 2025) di Chiara Centioni e della scoperta di se stessa attraverso la ballerina e pittrice australiana Vali Myers, vissuto a lungo a Positano.

Link all'articolo Cara Vali,




Vali Myers, 1959, in un ritratto di Norman Ikin


venerdì 4 luglio 2025

L'uomo allo specchio

L'uomo che non conosciamo è seduto di fronte a uno specchio bordato d'argento. 

L'immagine riflessa fa da sfondo a un'apparente realtà. La gente intorno a lui si muove e intorno vaga, alla ricerca delle illusioni. Le forme sprofondano nella gelata atmosfera di parole mancate, di abbracci perduti, amori celati. 

Laggiù, la sua anima persa nel vuoto, 
anima di un viandante 
che trema di stanchezza nelle ore più buie.
Le luci della sera, ora, sono sempre più vicine. 
L'uomo in noi che non conosciamo, trova nell'indefinito
il suo mondo dipinto d'azzurro. 
Il dolore non sarà vano forse, 
o forse no, lo sarà.
L'uomo che non conosciamo, solo vede se stesso
solo nella luce febbrile di un cielo luminoso, e ci osserva beffardo.


    René Magritte, Il falso specchio, 1928
                          

martedì 17 giugno 2025

Giorgio Manganelli e la scrittura come esercizio di libertà



Quando la morte lo coglie all'improvviso nel 1990, Giorgio Manganelli aveva pronto un dattiloscritto (non l'unico, tra l'altro) composto da saggi e interventi pubblicati fra il 1966 e quello stesso anno su diversi quotidiani e riviste, riguardanti i temi del leggere, dello scrivere e del recensire libri. Un corpus omogeneo, pensato e organicamente strutturato dallo scrittore: una vera e propria ‘raccolta d’autore’ poi divenuto un libro edito da Adelphi nel 1994. All'inizio il titolo doveva essere Frantumaxione di parole per decisione di chi si occupava di trascrivere il materiale, Ebe Flamini. Quando il testo è stato seguito per la stampa si è preferito, come spiega la curatrice Paola Italia, Il rumore sottile della prosa, titolo di uno degli articoli presenti, perché rendeva meglio cosa intendesse Manganelli per letteratura: lo spessore della pagina, l'intensità della scrittura. Qualità che hanno contraddistinto l'intera sua opera. Le parole non solo devono avere un senso, ma essere portatrici di un disegno. Ed è soltanto con l'inganno, con l'artificio che si può chiudere il cerchio. 

Manganelli rompe ogni legame con la tradizione letteraria e ha pochi eguali, ma numerosi seguaci; al di là alle legittime aspirazioni o degli accostamenti che vengono fatti dalla critica. È diventato anche un personaggio letterario, reso da Romana Petri in Cuore di furia (Marsilio, 2020). Lo stile manganelliano è labirintico, volutamente provocatorio. Un racconto-incantesimo che mescola il lirismo all’indagine filosofica, alternandolo alla dissertazione. Esplora la potenza del linguaggio come strumento di esorcismo, sottolineando che chi non padroneggia le regole della scrittura rischia di rimanerne schiacciato. Il suo rapporto con la parola è quello di un illusionista, un alchimista, capace di rendere la sintassi un organismo vivente, una “lava in perpetuo movimento” che si anima nella scrittura, nella lettura e nella rilettura. Tre concetti chiave di un intenso percorso. La prosa di Giorgio Manganelli è un’esplorazione vertiginosa della lingua, un gioco di costruzione e de-costruzione che affonda le radici nella letteratura rinascimentale e barocca. Così facendo trasforma la scrittura in un esercizio di disobbedienza, demolisce l’idea che la letteratura debba avere intenti educativi, meno che mai moralistici. “L'estrosità intellettuale si guasta come un niente”. Non ultimo è l'affondo spietato e ironico nei confronti dei successi letterari (o insuccessi) e dei premi.

Giorgio Manganelli ci insegna dunque a non avere paura della complessità, a non fermarci all'ovvio, ad andare oltre il puro e semplice dualismo del mi piace/non mi piace. Perché uno sguardo critico «introduce oscurità dove è illusoria chiarezza, porta notte dove è la menzogna del giorno, cattura e tesaurizza l’errore dove apparentemente si dà pertinenza»

(anche su Gli Stati Generali, link all'articolo Giorgio Manganelli e la scrittura come esercizio di libertà)




Sopra, un'immagine di Giorgio Manganelli (fonte, Modlet). 









lunedì 9 giugno 2025

Invisibili sogni

Nessun luogo mi lega, e tutto mi lega. 
Desiderio senza fine, con un fine. 
Smanio per qualcosa che non so cosa sia nell'infinito accadere -
Vivo di sogni sognati e vedo ciò che non sento
Hanno chiuso le porte ma non ho chiavi, mi hanno vietato i banchetti. Hanno scoperchiato i tombini. 
Nella via ritrovata non c'è il numero. 
Mi sono svegliata nella stessa vita in cui mi ero addormentata e non l'ho più riconosciuta
I miei sogni si sono sentiti falsi per essere stati sognati. La vita desiderata mi raggela - persino la vita.
Comprendo a intervalli sconnessi; penso nella mente e scrivo. 
Il vento mi scaraventa su una spiaggia sconosciuta
Non so quale destino o quale futuro spetti alla mia incertezza senza direzione; 
Invisibile sogno. 
È nel profondo del mio spirito, dove sogno ciò che ho sognato, nei campi estremi dell'anima in cui rammento senza una causa, nelle strade lontane dove ho ipotizzato di essere, fuggono ormai smantellati gli ultimi rimasugli di illusioni perdute,
i miei eserciti sognanti, sconfitti in partenza. 
Un'altra volta ti rivedo, 
città lontana dell'infanzia, ancora una volta sono qui a sognare. Ma sono lo stessa che torna. La stessa che sono. 
Ti vedo orizzonte invisibile 
con il cuore distante da me
Un'altra volta ti rivedo e tutto passa e quanto più passa, resta. 
Errante dovunque vada, cammino, stancamente cammino 
Un'altra volta ti rivedo, ombra che passa fra altre ombre, e riluce un istante sotto le tenebre, ed entra come la scia di una nave che si perde nelle acque nere. 
Un'altra volta ti rivedo, città dei sogni. 
È in frantumi lo specchio magico in cui mi guardo, e in ogni frammento eterno vedo soltanto pezzi di me - pezzi di noi. 

 
Salvador Dalí, L'uomo invisibile, 1929-32, Olio su tela, 140x80 cm, Museo Nacional  Centro de Arte Reina Sofia di Madrid 

mercoledì 28 maggio 2025

martedì 20 maggio 2025

Flannery O'Connor e l'arte di scrivere

Brano tratto da Un ragionevole uso dell'irragionevole. Saggi sulla scrittura e lettere sulla creatività, Minimum Fax, 2019, cap. "Natura e scopo della narrativa". 


San Tommaso chiamava l’arte «ragione in atto». È una definizione molto fredda e molto bella, e se oggigiorno è impopolare, è perché la ragione ha perso terreno fra noi. Come la grazia e la natura sono state separate, così è stato per l’immaginazione e la ragione, e questo significa sempre la fine dell’arte. L’artista usa la propria ragione per trovarne una corrispondente in tutto quel che vede. Per lui, essere ragionevole è trovare, nell’oggetto, nella situazione, nella sequenza, lo spirito che li rende tali. Non è cosa facile, né semplice. È un’invasione dell’eterno, e viene fatta solo con la violenza di un rispetto assoluto per la verità. Ne deriva che non esiste una tecnica da scoprire e applicare che renda possibile scrivere. Se frequentate una scuola dove si tengono corsi di scrittura, dovrebbero insegnarvi non a scrivere, ma piuttosto i limiti e le potenzialità delle parole, e il rispetto loro dovuto. 



 
    Flannery O'Connor e i suoi amati pennuti 



 


venerdì 9 maggio 2025

Il talento nella serie tv sulla danza (su Gli Stati Generali)

 Scrivo oggi di talento su Gli Stati Generali, prendendo spunto da una serie tv sul mondo della danza classica, dal 24 aprile su Prime Video.

Link all'articolo: Étoile






domenica 27 aprile 2025

Antonio Gramsci e l'indifferenza alla Storia

Il messaggio di Antonio Gramsci contenuto nel testo Odio gli indifferenti si può considerare la summa, il manifesto del suo pensiero. Non per niente viene citato spesso, anche sui social. Come tutti i grandi pensatori però è meglio leggere, se non è possibile tutto, e tutto non sempre è possibile, almeno molto della vasta produzione, per comprenderlo appieno. Altrimenti rimane uno slogan per le pronte occasioni e le bacheche virtuali. 


Link all'articolo del 2019 su Solo Libri: Odio gli indifferenti















giovedì 24 aprile 2025

L'ultima dedica di Mario Vargas Llosa (su Gli Stati Generali)

Ho scritto dell'ultimo romanzo, ultimo o forse no, di Mario Vargas Llosa, su Gli Stati Generali.

La letteratura ha il potere di imprimere una direzione alla Storia? Con questo eterno interrogativo si è congedato Mario Vargas Llosa, in un libro intitolato al silenzio.

Link all'articolo Le dedico il mio silenzio



"I quattro musicisti", dipinto di Fernando Botero si trova nella copertina del libro







sabato 19 aprile 2025

L'inno alla vita di Anna Maria Ortese

Brano tratto da Corpo Celeste di Anna Maria Ortese, Adelphi, 1997, p. 53

Sono lieta, in mezzo alle mie tristezze mediterranee, di essere qui. E dirvi com'è bello pensare strutture di luce, e gettare come reti aeree sulla terra, perché essa non sia più quel luogo buio e perduto che a molti appare, o quel luogo di schiavi che a molti si dimostra - se vengono a occupare i linguaggi, il respiro, la dignità delle persone. A dirvi come sia buona la Terra, e il primo dei valori, e da difendere in ogni momento. 



   Anna Maria Ortese





domenica 30 marzo 2025

La scrittura come un coltello, di Annie Ernaux (su Solo Libri)

La scrittura come un coltello, di Annie Ernaux. Premio Nobel per la letteratura nel 2022. Ne parlo su Solo Libri.

Link all'articolo La scrittura come un coltello



Annie Ernaux (fonte, Getty images)  

mercoledì 26 marzo 2025

L'attualità di Cioran sul turismo

Scriveva Emil Cioran, in una lettera all'amico Arşavir (tratto da L'orgoglio del fallimento, Lettere ad Arşavir e Jeni Acterian, a cura di Antonio Di Gennaro, Mimesis, collana Volti, 2021, traduzione italiana di Magda Arhip e Laureto Rodoni):

Dieppe, 28 agosto 1972

Mio caro Arşavir,

condivido le tue opinioni disilluse sulle vacanze, su questa nuova religione, perché proprio di questo si tratta! – la peggiore. Negli ultimi anni non si può più viaggiare d’estate. È impossibile trovare una stanza da qualche parte. Milioni di persone in movimento. Una cosa del genere non accadeva dai tempi delle invasioni barbariche. Prima potevo visitare l’Inghilterra, la Spagna, l’Italia cambiando posto ogni giorno; ora non posso. Così ho concluso la mia carriera da turista. Sono qui, in riva al mare, in un luogo dove c’è poca gente, poiché fa freddo e la spiaggia è priva di sabbia… Meglio così! Vivere senza telefono, senza visite, senza connazionali, senza appuntamenti di qualsiasi tipo: è questo il paradiso. Non puoi immaginare il tempo che spreco a Parigi in chiacchiere. Gente di tutto il mondo viene lì, e io non vado da nessuna parte. Le ore che ho passato negli ultimi anni in conversazioni insipide, avrei potuto usarle per imparare il cinese o il sanscrito.


    Emil Cioran (fonte, Bridgeman images). 

lunedì 24 marzo 2025

Scrivere è un atto politico

Si scrive per essere letti da un pubblico, ho letto. 

Certo, certamente. Innegabile. 

Si scrive però anche se non si viene letti, altrimenti vorrebbe dire che ci si mette al tavolino solo e soltanto se sai che verrai letto da "un pubblico". Scrivere é un atto politico, ma questo l'ho già detto, proprio qui. Che non è politica, beninteso di nuovo, perché la politica ha bisogno di sostenitori. L'atto politico invece esiste lo stesso, è più forte di tutto e tutti. 

Se fosse uno solo che poi ci legge, che sia un revisore o un amico o uno sconosciuto, a nessuno verrebbe mai in mente di dire che un revisore, un nostro amico, e pure lo sconosciuto non valgono perché sono pochi. Mai e poi mai. Intanto hanno letto. Sono i primi lettori. Benché probabile rimangano gli unici. 

Che scrivere è un atto politico non lo dice la presente sottoscritta. Io lo penso e lo scrivo, è vero, e poco ho fatto. Questo blog è letto da pochissimi, ma non per questo non ci scrivo. Lo sostiene molto meglio e molto prima di me Annie Ernaux, che con la sua scrittura come atto politico ha vinto il Nobel o Cesare Pavese, al quale è dedicato il nome di questo blog, che ha dato la vita per la scrittura come atto politico. 

In caso contrario non avrebbero nemmeno cominciato, e in seguito proseguito, entrambi e altri, e non credo avessero in mente, almeno all'inizio, il numero dei loro lettori. 




sabato 22 marzo 2025

“Wild swimming” di Giorgia Tolfo (su Solo Libri)

Su Solo Libri scrivo di un esordio, quello di Giorgia Tolfo col suo Wild swimming (Bompiani, 2025), proposto da Laura Pugno per il Premio Strega di quest'anno. 

Link all'articolo  Wild swimming




mercoledì 19 marzo 2025

L'amore indissolubile nelle lettere di Salvatore Satta




[Dall'archivio di Solo Libri] 

«Laura, mia indissolubile compagna, io ti benedico per queste gioie improvvise che mi giungono dal tuo ricordo. Ogni lettera che leggo è un rivivere il tempo immemorabile che abbiamo insieme trascorso, ignoti prima l'uno all'altro, poi improvvisamente svelati nel nostro comune destino. Io credo che se questa gioia dovesse durare a lungo, di Bob non troveresti un giorno altro che il mito quasi pagano, poiché mi dissolverei in te, e altra sorte per me non vorrei».

Link all'articolo Mia indissolubile compagna

Salvatore Satta dimostra con le sue opere quanto diritto e letteratura viaggino su binari paralleli. Su questo si veda anche l'articolo di Treccani on-line  https://www.treccani.it/enciclopedia/diritto-e-letteratura_(Enciclopedia-delle-scienze-sociali)/


Salvatore Satta e sua moglie, Laura Boschian (foto tratta dal "il manifesto"). 



martedì 4 marzo 2025

Le prime rivendicazioni per un mondo più giusto: da Olympe de Gouges a Franz Bernheim




 

La “questione femminile” emerse periodicamente in Europa durante il XVII e il XVIII secolo, soprattutto sul tema dell’educazione, sebbene i diritti delle donne non erano stati al centro di un’intensa discussione negli anni antecedenti le Rivoluzioni americana e francese. Diversamente da quanto avvenne per i protestanti, gli ebrei o persino gli schiavi, la condizione delle donne, infatti, non era stata argomento di approfondimento nelle discussioni pubbliche. I diritti per le donne figuravano a un livello inferiore della scala della “concepibilità” rispetto a quelli di altri gruppi. Questo disinteresse può essere dovuto al fatto che le donne non erano nemmeno considerate una minoranza, meno che mai perseguitata. Nonostante queste distinzioni fra categorie, i tempi si fecero maturi per tentare di superarle. Infatti nel 1791, ad opera della francese Olympe de Gouges (1748-1793) pseudonimo di Marie Gouze e nell'anno successivo ad opera dell’inglese Mary Wollstonecraft (1759-1797) verranno pubblicati due titoli particolarmente significativi, Declaration des drois de la femme et de la citoyenne e A Vindication of the Rights of Woman. La portata rivoluzionaria di questi testi lo si può capire dal fatto che gli stessi illuministi avevano un’idea della donna come vittima di emozioni, passioni e superstizioni, il cui comportamento era dettato dall’istinto quanto quello dell’uomo lo era dalla ragione.

Tra il 1789 e il 1795, con gli eventi che si susseguirono in Francia, tutti i club femminili vennero chiusi e proibiti alla partecipazione con un voto della Convenzione. Le motivazioni, neanche troppo velate, furono che le donne potessero ottenere la cittadinanza e i relativi diritti politici, costituendo una minaccia troppo forte per chi in quegli anni stava lottando per arrivare al potere. Le donne semplicemente non costituivano una categoria politica distinta.

Il più deciso assertore maschile dei diritti politici delle donne in quel periodo fu Condorcet, che già nel 1781 pubblicò un pamphlet nel quale chiedeva l’abolizione della schiavitù in un elenco che comprendeva proposte di riforma riguardante i contadini, i protestanti e il sistema di giustizia penale, nonché l’istituzione del libero scambio e la vaccinazione contro il vaiolo, ma le donne non le menzionò. Condorcet sfidò i suoi lettori a riconoscere che le donne avevano sempre avuto diritti e che le abitudini sociali le avevano rese cieche davanti a questa verità fondamentale. La questione suscitò il suo interesse soltanto dopo che era passato un anno dall’inizio della Rivoluzione e nove anni dopo il suo pamphlet, sostenendo che «O nessun individuo della specie umana gode di veri e propri diritti, oppure tutti godono degli stessi; e colui che vota contro il diritto di un altro, qualunque sia la sua religione, il suo colore o sesso, ha pertanto abiurato i propri diritti». 

Oltre Manica, c'era Mary Wollstonecraft che si dedicava ai modi in cui la tradizione e l'educazione avevano arrestato lo sviluppo femminile, polemizzando, anche in forma anonima, con quanti - ideologhi, filosofi, in particolare Edmund Burke - sostenevano il contrario.  Nel suo A Vindication of the Rights of Woman, già citato, collegò l’emancipazione della donna all’esplosione di tutte le forme di gerarchia nella società. «Io credo davvero» – disse Mary – «che le donne debbano avere propri rappresentanti, invece di essere arbitrariamente governate senza avere nessuna azione diretta che permetta loro di partecipare alle delibere del governo».

Sia Olympe de Gouges che Mary Wollstonecraft ebbero, è quasi scontato dirlo, una cattiva sorte: la prima venne condannata alla ghigliottina, come essere impudente e innaturale. La seconda venne denigrata pubblicamente in quanto donna libera e fuori dagli schemi. Insieme a William Godwin ebbe una figlia, che divenne nota come Mary Shelley (1797-1851) l'autrice del capolavoro Frankenstein.

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, soprattutto nel mondo anglosassone, e in particolare per opera di John Stuart Mill, riprende vigore la battaglia per l’eguaglianza uomo/donna, non solo intesa come eguaglianza giuridica ma anche come diritto all’indipendenza economica e culturale. Il pensiero liberale richiede tutele specifiche per la libertà degli individui, minacciata dal potere dello Stato, e dai poteri privati della famiglia, della comunità, del datore di lavoro.

Per contro, la nascente dottrina marxista critica un'impostazione ritenuta individualista e borghese e contribuisce alla costruzione dei diritti sociali, che saranno affermati per la prima volta nella Costituzione di Weimar del 1919, anche come sviluppo delle misure di assistenza pubblica già previste nella Germania di Bismarck a tutela dei lavoratori. L’avvento della società industriale aveva portato, infatti, grandi sconvolgimenti: la questione sociale suscitava notevoli preoccupazioni e aveva favorito la formazione di diversi movimenti associativi per la difesa delle condizioni di vita dei gruppi sociali oppressi o emarginati. Nello stesso periodo erano sorti, ancora una volta soprattutto nel mondo anglosassone, associazioni e movimenti femminili, alcuni dei quali si battevano per il riconoscimento del diritto di voto alle donne. Ma le dittature che si instaurano in Europa dopo la Prima Guerra mondiale travolgeranno la cultura dei diritti. 

All’indomani del primo dopoguerra vennero fatti due tentativi, entrambi falliti, di proclamare a livello internazionale il principio di uguaglianza tra individui. Il primo avvenne nel 1919. In occasione della elaborazione del Patto della Società delle Nazioni – e cioè del trattato internazionale che doveva porre le basi di una nuova comunità internazionale, dopo i disastri della prima guerra mondiale – la delegazione giapponese propose formalmente di inserire nel Patto una norma che prevedesse pari trattamento senza distinzioni di razza o nazionalità per tutti gli stranieri che avessero la cittadinanza di uno Stato membro della Società.

Quindi, una norma internazionale, inserita in un trattato fondamentale, avrebbe posto tutti gli stranieri su un piano di eguaglianza. Non si trattava, beninteso, di proclamare l’eguaglianza tra i cittadini di ciascuno Stato contraente, o tra questi e tutti gli stranieri; si trattava solo di non discriminare i cittadini degli altri Stati membri della Società, e solo essi, in base alla loro razza o nazionalità. Si era quindi lontani dalla consacrazione, a livello universale, del principio di eguaglianza, in quanto il passo avanti era solo limitato all’abolizione delle discriminazioni per razza o nazionalità. Malgrado la portata, come abbiamo visto ristretta, della proposta, essa venne rifiutata soprattutto per l’opposizione di Gran Bretagna, Australia e Stati Uniti, vale dire proprio quelle potenze occidentali nel cui seno erano stati concepiti i diritti umani. Significa che la comunità internazionale non era ancora matura per recepire quei valori .

Il secondo tentativo di proclamare a livello internazionale il rifiuto della discriminazione razziale avvenne nel 1933. Questa volta, però, lo scontro fu tra Stati occidentali e la questione non riguardò il trattamento degli stranieri, ma il rispetto dei valori della persona umana in quanto tale, in particolare la protezione delle minoranze. Infatti, i trattati stipulati dopo la Prima guerra mondiale proteggevano le minoranze linguistiche, razziali e religiose di alcuni Paesi dell’Europa centrale e orientale essenzialmente per esigenze politiche. Ma un episodio significativo segnò la crisi del tentativo di superare la dimensione politica e arrivare ad un’ottica ispirata ai diritti umani .

Nel 1933, come si diceva, un cittadino tedesco di origine ebrea si lamentò davanti al Consiglio della Società delle Nazioni delle violazioni – perpetrate dalla Germania – del trattato tedesco-polacco del 1922, nella parte in cui proteggeva le minoranze dell’Alta Slesia (allora appartenente alla Germania). Franz Bernheim, questo il nome, visse tra il 1931 e il 1933 in Alta Slesia, era stato licenziato da una società tedesca, come tutti gli impiegati ebrei. Nella sua petizione ricordò le varie leggi e ordinanze contro gli ebrei, emanate nell’aprile del 1933 dal governo tedesco, insistendo sul fatto che esse introducevano in tutta la Germania una grave discriminazione razziale. Bernheim venne subito contestato da parte del delegato tedesco  di non avere alcun legame con l’Alta Slesia, né di origine né di famiglia. Fu invece il rappresentante polacco che in un vigoroso intervento respinse le obiezioni tedesche osservando che, almeno dal punto di vista formale, il Consiglio non poteva che occuparsi della sorte delle minoranze ebraiche in Alta Slesia e che ci dev’essere un minimo di diritti che deve essere garantito a ogni essere umano, indipendentemente dalla razza, dalla religione o dalla lingua materna. Parole che all’epoca destarono scalpore .

La questione delle discriminazioni contro le minoranze non si fermò lì in quanto, qualche mese dopo, la Germania chiese all’assemblea della società delle Nazioni di sottoporre a una commissione dell’Assemblea stessa il rapporto annuale della Società nella parte relativa alle minoranze. La questione venne quindi ripresa in seno alla VI Commissione dell’Assemblea. In quella sede si accese un vivace dibattito su una questione di principio: se in ogni Stato civile moderno tutti i cittadini dovessero godere di un eguale trattamento, sia in diritto che in fatto. La maggior parte degli stati rispose affermativamente; solo la delegazione tedesca affermò, invece, che uno Stato sovrano aveva il diritto di considerare un simile problema come una questione interna. 

Tra gli Stati più avanzati, una posizione di punta fu presa dalla Francia che fece due proposte: riaffermare il principio che tutti gli Stati non legati da trattati sulle minoranze dovevano considerare le loro minoranze “almeno con lo stesso grado di giustizia e di tolleranza” richiesto da quei trattati. Inoltre la Francia proponeva di affermare che, se uno Stato aveva stipulato un trattato sulle minoranze, le clausole di quel trattato non andavano interpretate nel senso di escludere certe categorie di cittadini dai benefici delle clausole stesse; in altri termini, le minoranze all’interno di uno Stato erano protette anche se non si trovavano nei territori designati in termini esclusivi dai trattati.

Il riferimento all’affare Bernheim era evidente: secondo la proposta francese, la Germania doveva trattare senza discriminazione gli ebrei tedeschi, anche al di fuori dell’alta Slesia, e cioè in tutta la Germania. Non deve dunque stupire che il delegato tedesco sia insorto contro quella proposta, affermando che essa “aveva direttamente di mira la questione ebraica in Germania”. Anche se migliorata dal delegato greco Politis, la proposta francese fu dunque respinta dalla Germania, nella parte di cui stiamo parlando. In virtù dell’art. 5 del Patto della Società (secondo cui le delibere dell’Assemblea potevano essere adottate solo “con l’approvazione di tutti i membri”), la proposta francese fu bocciata .

Questo episodio dimostra che ancora nel 1933, la sovranità nazionale si opponeva al rispetto pieno dei diritti umani per tutti. Che il principio di uguaglianza – la base stessa di tutti i diritti e le libertà fondamentali – non era ancora considerato come uno dei capisaldi imprescindibili di ogni convivenza umana. Non è un caso che il voto contrario della Germania alla proposta francese sia stato dato l’11 ottobre 1933, e solo tre giorni dopo, il 14 ottobre, Hitler abbia radiotrasmesso il famoso discorso con cui annunciava il ritiro della Germania dalla Società con la motivazione che gli altri Stati non erano disposti ad accordare “una reale eguaglianza di diritti alla Germania” ma la lasciavano in una posizione “non dignitosa”. Hitler protestava per una discriminazione in campo internazionale certamente meno grave di quella che lui stesso operava, in Germania, contro certe categorie di cittadini tedeschi .

L’isolamento della Germania sulla questione della minoranza ebraica non fu certo la causa del suo ritiro dalla Società, tanto più che proprio le norme della Società le avevano consentito di bloccare una risoluzione che di fatto la condannava. Ma è significativa la coincidenza tra la rottura della Germania con i postulati essenziali del vivere civile – anche se si trattava ancora di norme etiche – e la sua uscita da quell’organismo che aveva voluto raggruppare tutti gli Stati “civili”.

Sinistra coincidenza, dunque, che mette in evidenza il nesso tra l’imbarbarimento nazista e il diniego totale dei diritti umani .

Il rispetto della dignità umana trovò, dunque, la prima pietra di inciampo nella ferma presa di posizione della Germania, volta a sostenere che la sovranità nazionale non tollerava alcuna ingerenza internazionale negli affari interni. La rottura – su questo e su altri punti, non meno significativi – tra la Germania ed il resto della comunità internazionale porterà poi allo scoppio della Seconda Guerra mondiale.


Bibliografia

A. Cassese, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Laterza, Bari, 1994.

M. Flores, Storia dei diritti umani, Il Mulino, Bologna, 2008.

L. Hunt, La forza dell’empatia. Una storia dei diritti dell’uomo, Laterza, Bari, 2010.

G. Oestreich, Storia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, Laterza, Bari, 2001.

M. Wollstonecraft, A Vindication of the Rights of Woman (titolo in italiano: Sui diritti delle donne).

Per un approfondimento sulla petizione di Franz Bernheim: https://www.southcoastview.co.uk/news/the-bernheim-petition/


                                  

                                       


Ultima pagina della petizione di Bernheim (foto tratta dal sito https://www.southcoastview.co.uk/)




Frontespizio originale di A Vindication of the right of woman

mercoledì 29 gennaio 2025

Scrivere poesie dopo l'indicibile. Paul Celan e Theodor W. Adorno nel saggio di Paola Gnani



Il saggio "Scrivere poesie dopo Auschwitz" (Giuntina, 2010) della germanista Paola Gnani ricostruisce ed esamina nel dettaglio il complesso legame intellettuale fra due grandi personalità del Novecento. La questione, interessante, nacque da una frase diventata celebre del filosofo tedesco di padre ebreo e madre cattolica Theodor W. Adorno (il cognome è quello materno, l'altro è abbreviato con la doppia vu) che dichiarò nel testo "Critica della cultura e della società" del 1949: «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché è diventato impossibile scrivere oggi poesie».

Il ragionamento era piuttosto articolato, ma quando c'è un nucleo difficile da ridurre si semplifica in un concetto e infatti così accadde, come succede anche adesso quando si estrapola da un discorso. Intendeva porre il problema della possibilità di una forma di pensiero e del bello che produce dopo gli orrori dell'Olocausto. 

Invece un poeta, Paul Celan, pseudonimo di Paul Antschel, nato in Romania nel 1920 da famiglia ebrea tedesca, era mosso dall'urgenza della sua arte. Sopravvisse ai lavori forzati mentre i genitori morirono in un lager. Per dare voce a tutti coloro che non avevano più voce utilizzava i versi, da lui considerati come un tributo alla verità. 

Il punto di vista del primo espresso quando ancora non aveva letto nulla del secondo (tanto è vero che dopo ne riconobbe il grande valore) li divise e al contempo unì senza mai parlarsi direttamente, se non a distanza. L'attenzione dell'uno nei confronti dell'altro continuò a sussistere, nonostante le divergenze di opinione e atteggiamento. Adorno mitigò la sua affermazione negli anni successivi ammettendo con rammarico che le sue parole erano state prese alla lettera, ma l'interrogativo sul destino dell'arte dopo quella che fu vista come una sentenza, Celan in particolare, rimase a lungo e animò artisti e intellettuali dell'epoca. 

Paul Celan lottò con tutte le forze per vedere riconosciuta dignità alla propria opera. La vita oltretutto gli diede colpi durissimi - la morte prematura del primo figlio appena nato e una falsa accusa di plagio - e cadde negli abissi della malattia mentale. Nel 1970 all'età di 50 anni decise di lasciarsi andare per sempre nelle acque della Senna. Viveva infatti a Parigi, sebbene continuò a scrivere in lingua tedesca. 

Per ironia della sorte, Adorno fu vittima anch'egli di una campagna diffamatoria rivelatasi in seguito infondata che andò a minare le sue già precarie condizioni di salute. Morirà un anno prima del poeta. 

I titoli dei capitoli corrispondono ad alcune bellissime liriche di Celan e quelle rilevanti per l'argomento vengono analizzate dall'autrice. 



Paul Celan (foto di Gisèle Celan-Lestrange, S. Fischer Verlag GmbH)



Theodor W.Adorno (Halbportrait – 1964)