Parecchie cose non hanno senso almeno apparente, eppure ci crediamo. È questo a tenerle e a tenerci in piedi. Peggio sarebbe che le cose avessero un senso e non crederci affatto.
La vita, la morte, la religione, la politica. Dipingere, scrivere. Dare un senso è mistero. È qualcosa di indicibile.
Ci sono diversi motivi per i quali una persona scrive o si dedica a un'attività artistica: per rivalsa, per sentirsi importante, per passatempo oppure perché consigliato dall'analista.
Siamo noi a dare un senso alle cose. Ciò che ha senso per me può non averlo per un altro. Si può dire che l'arte è vita, inteso come qualcosa di vivo e pulsante, e si può dire che nella vita non c'è solo l'arte. "Bisogna salvare le parole dalla loro vanità e vacuità", sosteneva Maria Zambrano, filosofa spagnola (Perché si scrive, a cura di R. Prezzo, Cortina, 1996).
Per Cristina Campo scrivere era una necessità spirituale legata alla sofferenza fisica. Anche per Emil Cioran era un bisogno spirituale dovuto a uno stato morboso; scrivere per lui era un'ossessione. La metafisica del pensiero lo portava in territori estremi.
Ancora, Vitaliano Trevisan, considerava la scrittura come un atto di fede. Un bisogno che non ammette alternative. Come respirare.
Per Cesare Pavese la vita personale e la scrittura andavano di pari passo. Per Grazia Deledda era uno scopo ben preciso, dritta alla meta, come una rivelazione.
Ingeborg Bachmann scriveva per sentirsi assoluta nell'assolutezza delle parole.
Solo alcuni esempi. In ognuno di loro, come di tanti altri, si riflette un modo di vedere e stare al mondo. In loro come in altri la scrittura non è o non è stata solo vivere, bensì sopravvivere alla vita.
***
Immagine: René Magritte, I valori personali, 1952, olio su tela. San Francisco, Museum of Modern Art (Collection SFMOMA).
















