Non mi piacciono i messaggi di cordoglio social, li detesto. Non mi piacciono i messaggi di cordoglio in generale.
Aveva scelto il silenzio nel titolo del suo ultimo romanzo perché forse sapeva che sarebbe stato davvero l'ultimo.
Non mi piacciono i messaggi di cordoglio social, li detesto. Non mi piacciono i messaggi di cordoglio in generale.
Aveva scelto il silenzio nel titolo del suo ultimo romanzo perché forse sapeva che sarebbe stato davvero l'ultimo.
A scuola capitava che qualche insegnante, soprattutto d'italiano, portasse dei giornali per analizzarli insieme. Ricordo che la maestra delle elementari ci faceva ritagliare e incollare su appositi quadernoni le notizie sulla nostra città e lì, in quei quadernoni, sono rimaste. Ricordo anche che alcuni compagni un quotidiano non l'avevano mai visto. E mi stupivo di loro come loro si stupivano di me o di qualcun altro. A casa mia era impensabile non ascoltare il telegiornale all'ora di cena, per esempio, o avere almeno il quotidiano locale girare nelle stanze. Perché, tu guardi il telegiornale, mi disse una volta stupito un compagno. Non era nemmeno una domanda. Era una chiara affermazione, con uno sguardo che non faceva presagire nulla di buono, per me. La strana insomma ero io.
Ora viviamo nell'informazione. Tutti ne abbiamo accesso. Si è sempre connessi, sappiamo o crediamo di sapere. Cose, persone, sembrano vicino ma non lo sono. Gli utenti dei social hanno sentimenti, esperienze, pregi, difetti, eppure anche no. Manca qualcosa. Quello di stamattina già non è più di stasera. Nemmeno noi. Fino a scomparire nel buio della notte. Niente si approfondisce. Tutto rimane in superficie.
La superficie è crosta sui muri, cade giù prima o poi, effimera, come il più facile degli intrattenimenti, come raggiungere la felicità a tutti i costi o un qualsiasi post. Pure questo.
"Non aveva segreti per me la mia città. Fosse o lieta o alcuna ombra la oscurasse, ero abituato a compatire i suoi umori, a spartire i suoi sentimenti più celati, a seguirne le rimutazioni tanto sulla faccia che guardava il mare, quanto su quella che guardava la montagna. Era un affetto il mio ben più intimo e geloso, di quello che le cose inanimate o credute tali sogliono ispirare: misteriosa mistione di amore e di dubbio, insaziabile bisogno di fedeltà".
Tratto da "Alla città della mia infanzia, dico", racconto di Alberto Savinio, contenuto nella raccolta Casa «la Vita», Adelphi, 1988.
Alberto Savinio, raffinato scrittore e pittore, pseudonimo di Andrea Francesco Alberto de Chirico (Atene, 1891 – Roma, 1952) fratello del più noto pittore Giorgio de Chirico, ha espresso alla perfezione quello che provo per la mia città e in generale quello che proviamo un po' tutti verso il luogo di nascita o dove sono le nostre radici, simboli di appartenenza. Essere di casa infatti si dice quando siamo a nostro agio in un posto. Città-casa, simbolo di vita ma anche di morte, di mistero, di amore e odio. La casa è il luogo per eccellenza di tutto questo. Con il carico che porta dietro (e dentro, appunto). Costruire delle fondamenta e tenerle ben salde diventa con Savinio principio universale.
In foto, una veduta aerea di Novara, la mia città di nascita.