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venerdì 3 ottobre 2025

Il mondo di Ingeborg Bachmann


«Esisto solo quando scrivo, non sono nulla se non scrivo, sono estranea a me stessa, fuori di me se non scrivo» diceva Ingeborg Bachmann, poetessa e scrittrice austriaca nata nel 1926 e morta nel 1973 in circostanze drammatiche e mai del tutto chiarite, nella sua casa di Roma. Una frase che non venne pronunciata per fare colpo su qualcuno, non era nel suo stile, bensì detta con la consapevolezza che la scrittura non è né passatempo, né forma di egocentrismo. 

Nel saggio "L'uomo deve affrontare la verità" contenuto nella raccolta di scritti intitolata A occhi aperti, a cura di Barbara Agnese, edita quest'anno da Adelphi, troviamo dichiarato: 

«Compito dello scrittore non può essere quello di negare il dolore. Al contrario deve riconoscerlo e poi ancora restituirlo in quanto reale, in modo che noi possiamo vederlo». 

Scopo della letteratura e dell'arte è quindi togliere il velo, senza paure o ipocrisie. Bachmann non scriveva per compiacere, per avere l'approvazione altrui, quanto piuttosto per rispetto nei confronti delle parole. 

In Letteratura come utopia, testo utile per comprendere come considerava la letteratura, ovvero “Un’etica del pensiero” (Adelphi, 1993) esprimeva la sua verità:

«L'operare dello scrittore non sarebbe forse hybrid, e non dovrebbe egli diffidare di ogni parola, persino di se stesso?». Chi scrive dunque si esercita su una lingua utilizzata da altri e in tal modo se ne abbevera in un processo apocrifo e inevitabile. 

Negli anni della sua poliedrica attività, iniziata con i versi e conclusa con la prosa (passaggio tra l'altro affrontato dalla critica in vari studi) i suoi interventi anche radiofonici sono stati numerosi.
In linea col pensiero del filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein, suo connazionale, Bachmann riconosce che il mondo è ciò che può essere detto, ma è proprio nell’attrito con l’indicibile che la scrittura trova il suo slancio più radicale. Non c'è spazio per le questioni metafisiche o morali; nulla può la filosofia. Tale limitazione del dicibile a ciò che può essere dimostrato porta a un vuoto che non è più solo linguistico ma, per Bachmann, esistenziale. Ed è nel desiderio di superare questo ostacolo che si esplicita la sua personale visione, evocata nel titolo A occhi aperti. Non solo perché vi si trovano racchiusi diversi contributi su ciò che più la premevano – autori, tematiche, ma perché rivelano il suo animo di artista. Nell'articolo sul già citato Wittgenstein di cui aveva svolto la tesi di dottorato, vi è un'articolata disamina sugli enunciati sensati e insensati del linguaggio comune. Come ricorda Barbara Agnese nella postfazione: «L’intero percorso intellettuale di Bachmann è stato improntato all’etica del sospetto verso le frasi fatte». Ci sono inoltre e tra altri, Thomas Bernhard, Witold Gombrowicz, Kafka, Giuseppe Ungaretti, Sylvia Plath, nonché uno splendido omaggio a Maria Callas: «una che sa per certo cos’è un’espressione»; non poteva mancare il Gruppo 47, movimento culturale nato all’indomani della Seconda guerra mondiale con l’intento di risollevare le sorti della Germania e rigettare l’assunto della “colpa collettiva”, formato dalla migliore intellighenzia tedesca (oltre a lei, entrata nel 1952, ne hanno fatto parte per esempio, Paul Celan, Heinrich Böll, Günter Grass, Peter Handke, tuttora vivente). Presente altresì il profondo legame, per lei imprescindibile, fra poesia e musica. Entrambe appartengono cioè a un linguaggio universale e si appartengono l'una all'altra.

Sempre rigorosa e tersa, Ingeborg Bachmann.
«Ho sentito che nel mondo si ha più tempo che senno, ma anche che gli occhi ci sono dati per vedere» scrive a conclusione del racconto sull'esperienza di vita a Roma, inserito anch'esso nel libro. Città amata e osservata, fino all'ultimo, nella sua dignità, nella più intima essenza.

Anche su «Gli Stati Generali», link all'articolo Il mondo di Ingeborg Bachmann





Nell'immagine sopra, Ingeborg Bachmann. 






mercoledì 6 dicembre 2023

Paul Celan e Ingeborg Bachmann

Attendere: anche questo ho considerato. Ma non significherebbe anche attendere che la vita in qualche modo venga verso di noi? E la vita non ci viene incontro, Ingeborg, attendere che ciò accada sarebbe per noi il modo meno adatto di esserci. 

Paul Celan in una lettera a Ingeborg Bachmann