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8 febbraio 2025

Guido Morselli e la gloria postuma



Cosa direbbe un artista se sapesse che il proprio successo è avvenuto soltanto dopo la  sua morte? E sarebbe un successo? Bisognerebbe anche stabilire cosa significhi avere successo, soprattutto nella nostra epoca dove, per farsi conoscere, è o sembra sufficiente un video dai cento clic. 
Tuttavia, si può dire che col tempo cambia la sensibilità del pubblico o degli addetti ai lavori oppure una scoperta casuale, come per Vivian Maier (link al precedente articolo: Vivian Maier e la gloria postuma) permette di conoscere nuove storie personali e artistiche degne di interesse. Per esempio, quante pittrici vediamo esposte oggi nei musei? Quante scrittrici del Novecento conosciamo solo adesso? Non è sempre e soltanto una questione di genere, beninteso, ma ragioni storiche, sociali e culturali hanno di fatto escluso le donne da diversi ambiti. È il talento, il valore oggettivo quello che conta, ma le opportunità, le condizioni di partenza, devono essere le stesse, a prescindere dal genere di appartenenza o dal colore della pelle. 

A parte questo, nella narrativa italiana c'è il peculiare caso di Guido Morselli di cui vale la pena parlare, diventato l'emblema dello scrittore rifiutato. Nato a Bologna nel 1912 in una famiglia della buona borghesia emiliana trasferitasi a Milano, visse nel varesotto, zona alla quale si sentì profondamente legato. Non accettò di seguire le orme paterne nel settore imprenditoriale e preferì la strada, non meno priva di insidie, della letteratura. Esclusi alcuni articoli e due saggi intitolati Proust o del sentimento* e Realismo e fantasia è stato pubblicato per intero quando ormai non poteva più vedere i risultati, e quali fossero, dello sforzo compiuto. Famosa è la lettera inviatagli da Italo Calvino spiegando le ragioni di un diniego editoriale e dove Morselli, peraltro, rispose**.

Per capire dunque la sua "gloria postuma", ci rifacciamo alle parole del critico Matteo Marchesini: «Comunque si vogliano giudicare le circostanze di questa sfortuna, non bisogna dimenticare che i suoi capolavori narrativi Morselli li scrisse lungo gli anni Sessanta: cioè proprio nel decennio in cui più forte, in Italia e altrove, infuriava la polemica contro il genere romanzo, dato autorevolmente per morto. E si trattava, nel caso, di romanzi la cui originalità era tanto maggiore quanto più tendeva a presentarsi sotto vesti sobrie: vesti che una società letteraria attratta dalle infrazioni clamorose degli “antiromanzi” poteva facilmente scambiare per tradizionali (si veda ad esempio il modo in cui Calvino rifiutò Il comunista, appunto perché troppo “romanzesco”)».***

Oltre quest'ultimo romanzo citato, altri da ricordare sono Roma senza papa, il suo primo, uscito nel 1974, ovvero appena un anno dopo la morte, e Contro passato prossimo, nel 1975. Tuttavia, il lavoro più importante è Dissipatio H.G, scritto tra il 1972 e il 1973 e dato alle stampe nel 1977, dove un giornalista, voce narrante, si ritrova solo nella città in cui vive, Crisopoli. Solo nel mondo dopo aver tentato invano di lasciarlo:

«Io non amo Crisopoli, anzi non la posso soffrire. In lei ho scorto il mio antitipo, l'affermazione trionfale di tutto ciò che io rifiuto, l'ho eletta a centro della mia detestazione del mondo; un caput-mundi al negativo. La mia «fuga saeculi» è stata, già allora, fuga da questa precisa localizzazione del "secolo". Pure, il fatto che ho sotto gli occhi mi riesce implausibile e tetro». 

H.G. sta per humani generis, ovvero: dissolvimento del genere umano. Una fuga in avanti, potremmo dire, e non all'indietro, come si potrebbe pensare. Un annientamento che corrispose a quello dello stesso Morselli che scelse di suicidarsi con un colpo di pistola e "la ragazza dall'occhio nero", così la definisce, è la rivoltella presente nel romanzo. Chiaro che questo romanzo contiene degli elementi autobiografici e che il narratore è una sorta di alter ego dell'autore. Sul suicidio di Morselli si è ipotizzato che dipendesse da quella sfortuna editoriale di cui si è detto sopra. Probabile, ma lungi dal fare considerazioni psicologiche, non può esserci un solo motivo a spiegare un gesto estremo, quanto piuttosto una serie di motivi. Per il resto, sarebbe ormai fare della dietrologia e tanta se n'è già fatta. Morselli con la sua opera aveva, per così dire, anticipato i tempi e in quei tempi non era stato capito.

Per capire ancor meglio la sua indole e il suo mondo interiore la lettura dei Diari, forse è scontato dirlo, rivelatrice. Scritti fra il 1943 e il 1973, e pubblicati, come le altre opere, da Adelphi, vi ha lasciato numerose riflessioni, alcune delle quali si ritrovano formulate nella finzione romanzesca. Pensieri colti, a volte complessi, su varie tematiche, dalla religione alla politica, dalla narratologia alla psicoanalisi, dall'amore al turismo, e a Dio, che ricorre diverse volte, tenendo conto che era ateo.  La speculazione filosofica era il suo terreno di gioco. Non abbandona le puntuali riflessioni nemmeno la notte delle "facili euforie", come le chiama, del 31 dicembre. Nega a se stesso l'ottimismo, per esplicita ammissione. Spesso utilizza il pronome 'noi'; sembra quasi stia scrivendo per un giornale. Raramente si sbilancia con le emozioni personali o nel descrivere i suoi giorni. Ma quando lo fa, elabora dei pensieri poetici intensi, tanto che di lui si potrebbe affermare tutto e il contrario di tutto: 

«Dolore non c’è che dolore. L’amore è soltanto finzione. La vita è una fiamma breve che guizza e si spegne in un immutabile algore».

Afferma Giuseppe Pontiggia nella prefazione, citando Goethe che consigliava di scrivere un diario non per vivere nel futuro, ma nel presente: «è curioso per uno come Morselli che quel rapporto col presente gli è sempre sfuggito. Non a caso i suoi romanzi spaziano tra il futuro dell'utopia e il dagherrotipo della storia».

In data 20 febbraio 1940 Morselli scrive: «I sentimenti quando sono manifestati perdono d'intensità. Questa è la ragione per cui il dolente, l'amante trovan sollievo nella confidenza. Questa è la ragione per cui taluno preferisce tenere i propri sentimenti per sé». Concetto ribadito all'interno di una parentesi - a conferire forza al pensiero e non a ridurlo - che troviamo anche e per l'appunto in Dissipatio H. G.:

«(Spiegarlo, dicevo. Ma a chi? A nessuno, ovviamente. Non mi convince la tesi che ogni esprimere anche il più privato supponga un comunicare. Quel «dovrei spiegare» non suppone niente e nessuno. Rivolto a me, è un pleonasmo funzionale. Mi tiene compagnia)». 

Le integrazioni della curatrice Valentina Fortichiari, studiosa di Guido Morselli, poste alla fine del libro in apposite note rendono la lettura più esaustiva, trattandosi di una selezione su un totale di diciassette quaderni tenuti dall'autore. 

Alcuni tratti - nel rapporto contradditorio con le donne, nel pensiero ossessivo dell'auto distruzione, nella solitudine, nel rifiuto- ci riportano a Cesare Pavese. Spiriti profondi e sensibili che la società con i suoi dettami precostituiti difficilmente comprende adesso come allora. Persone comuni che avevano una visione del mondo fuori dal comune.




*A proposito del saggio di Morselli su Proust:

https://diacritica.it/letture-critiche/morselli-e-proust-un-confronto-sul-sentimento.html?fbclid=IwY2xjawIV5thleHRuA2FlbQIxMQABHXN_aA_YdhltL69yB2N4k8HyJJx88mGZeFwPsiSyajjXPmU3-8j6Xln4sg_aem_g3EctvXlPW87jxxUngBhtg#post-8664-footnote-ref-165


**Lo scambio epistolare fra Calvino e Morselli si può leggere al seguente link: https://mvlmonteverdelegge.blogspot.com/2013/03/caro-morselli-caro-calvino-il-no-di.html 


***Per l'articolo completo di Matteo Marchesini si rimanda a:

https://claudiogiunta.it/2017/02/morselli-il-pelagiano/fbclid=IwY2xjawHjihFleHRuA2FlbQIxMQABHd0ukLacnP532sWbve3Yhm002KjF9f7LaDY53db7VnqgYK61PmR-YqPSGg_aem_vbe015qagIvXUFryDuRlnA&sfnsn=scwspwa 







29 gennaio 2025

Scrivere poesie dopo l'indicibile. Paul Celan e Theodor W. Adorno nel saggio di Paola Gnani



Il saggio "Scrivere poesie dopo Auschwitz" (Giuntina, 2010) della germanista Paola Gnani ricostruisce ed esamina nel dettaglio il complesso legame intellettuale fra due grandi personalità del Novecento. La questione, interessante, nacque da una frase diventata celebre del filosofo tedesco di padre ebreo e madre cattolica Theodor W. Adorno (il cognome è quello materno, l'altro è abbreviato con la doppia vu) che dichiarò nel testo "Critica della cultura e della società" del 1949: «Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro e ciò avvelena la stessa consapevolezza del perché è diventato impossibile scrivere oggi poesie».

Il ragionamento era piuttosto articolato, ma quando c'è un nucleo difficile da ridurre si semplifica in un concetto e infatti così accadde, come succede anche adesso quando si estrapola. Intendeva porre il problema della possibilità di una forma di pensiero e del bello che produce dopo gli orrori dell'Olocausto. 

Invece un poeta, Paul Celan, pseudonimo di Paul Antschel, nato in Romania nel 1920 da famiglia ebrea tedesca, era mosso dall'urgenza della sua arte. Sopravvisse ai lavori forzati mentre i genitori morirono in un lager. Per dare voce a tutti coloro che non avevano più voce utilizzava i versi, da lui considerati come un tributo alla verità. 

Il punto di vista del primo espresso quando ancora non aveva letto nulla del secondo (tanto è vero che dopo ne riconobbe il grande valore) li divise e al contempo unì senza mai parlarsi direttamente, se non a distanza. L'attenzione dell'uno nei confronti dell'altro continuò a sussistere, nonostante le divergenze di opinione e atteggiamento. Adorno mitigò la sua affermazione negli anni successivi ammettendo con rammarico che le sue parole erano state prese alla lettera, ma l'interrogativo sul destino dell'arte dopo quella che fu vista come una sentenza, Celan in particolare, rimase a lungo e animò artisti e intellettuali dell'epoca. 

Paul Celan lottò con tutte le forze per vedere riconosciuta dignità alla propria opera. La vita oltretutto gli diede colpi durissimi - la morte prematura del primo figlio appena nato e una falsa accusa di plagio - e cadde negli abissi della malattia mentale. Nel 1970 all'età di 50 anni decise di lasciarsi andare per sempre nelle acque della Senna. Viveva infatti a Parigi, sebbene continuò a scrivere in lingua tedesca. 

Per ironia della sorte, Adorno fu vittima anch'egli di una campagna diffamatoria rivelatasi in seguito infondata che andò a minare le sue già precarie condizioni di salute. Morirà un anno prima del poeta. 

I titoli dei capitoli corrispondono ad alcune bellissime liriche di Celan e quelle rilevanti per l'argomento vengono analizzate dall'autrice. 



Paul Celan (foto di Gisèle Celan-Lestrange, S. Fischer Verlag GmbH)



Theodor W.Adorno (Halbportrait – 1964)


5 gennaio 2025

Al di là del bene e del male, ovvero "Ai limiti dell'impossibile", di Joyce Carol Oates

 


[Dall'archivio di Sul Romanzo] 


Più grande tra tutti sarà colui che può essere il più solitario,

il più nascosto, il più diverso, l’uomo al di là

del bene e del male, il signore delle proprie virtù, ricco

quant’altri mai di volontà.

Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male



Questa citazione è il fulcro intorno al quale ruota il libro Ai limiti dell’impossibile. Forme tragiche in letteratura che troviamo anche riportata, edito da Il Saggiatore nel 2019, nella traduzione di Giulia Betti.  Si tratta di una raccolta di saggi scritti da Joyce Carol Oates tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso quando davanti a sé aveva ancora tanta strada da percorrere nella quale avrebbe spaziato dai romanzi ai racconti, dal teatro alle poesie, compresa la platea di ragazzi e bambini, nonché i più vari sottogeneri, dal gotico al realistico, col risultato di essere fra le più prolifiche nel panorama internazionale distinguendosi per il suo eclettismo. 

A metà strada tra il saggio critico e il filosofico con sfumature psicologiche, in sole 240 pagine viene elaborata una colta analisi di produzioni narrative e pièce teatrali, che solo una persona con notevole spessore letterario come Joyce Carol Oates, illustre scrittrice americana data ogni volta fra i favoriti del Nobel per la letteratura, poteva realizzare. Allo scopo di individuare e approfondire il nucleo tragico della e nella finzione artistica adduce molteplici voci critiche, consapevole che nella vita siamo tutti noi “attori”, divisi tra ciò che è bene e ciò che è male, chiusi in tale dicotomia.

L’introduzione, onirica e all’apparenza consolatoria, ci avvisa in modo piuttosto stentoreo:

«L’eroe al fulcro della tragedia esiste affinché possiamo testimoniare, nella sua distruzione, il rovesciamento delle nostre vite private. Ci adattiamo allo spettacolo di una forma d’arte, paralizziamo il nostro scetticismo per vedere oltre l’artificio della stampa o del palco e condividiamo in un sogno misterioso la necessaria perdita dell’io, perfino mentre l’io in questione sta leggendo oppure osservando, perdendoci nel testimoniare la morte di qualcuno cosicché, nel nostro mondo di umani, questo eroe possa rinascere ancora. L’eroe tragico muore ma viene ridato alla luce eternamente nei nostri sogni; la rudezza del nostro desiderio per un assoluto viene riscattata dalla bellezza che così spesso avvolge questo sogno. Si può spiegare il sogno ma mai la sua bellezza.  L’eroe muore nella nostra immaginazione mentre, senza poter fare niente, viviamo le nostre vite che non sono mai opere d’arte – perfino le vite inermi degli «artisti»! – e non sono mai comprese. La sofferenza viene espressa nella letteratura tragica e perciò questa letteratura è irresistibile, una terapia per l’anima». 

Quindi, qual è il discrimine fra realtà, apparenza e immaginazione? Quanto siamo consci, se lo siamo, del nostro lato oscuro?

Beninteso, lo scopo del presente volume non è fornire in sé per sé una risposta a questi interrogativi, semplicemente perché non ce n’è bisogno. Sono i soggetti presi dalla storia e dalla letteratura scelti da Oates a farlo per chi legge. 

Il testo è suddiviso in nove capitoli, due dei quali dedicati a Shakespeare e altri due a William Butler Yeats. Gli altri riguardano nell’ordine Melville, Dostoevskij, Čechov, con un interessante raffronto al teatro di Beckett e una nuova definizione di “assurdo”, e Thomas Mann. Chiude Eugène Ionesco, il più contemporaneo dell’elenco.

Se – indicando qui i più noti anche per il nostro immaginario – Troilo e Cressida e Antonio e Cleopatra (drammi che Shakespeare pone in essere attingendo dall’antico passato greco e romano) in un vortice di illusioni e disillusioni vengono definiti e finiti dai loro medesimi tormenti  – oltre che essere coppie di amanti – facendosi interpreti di sentimenti ambivalenti, tra ciò che sono e ciò che vorrebbero essere, il capitano Achab di Moby Dick va alla ricerca via mare della propria identità e viene coinvolto in una lotta perenne tra apparenza e realtà. Un eroe tragico che sceglie da solo il suo destino, per quanto questo possa sembrare sbagliato agli occhi degli altri, ed eroe romantico, ponendosi in rapporto alla balena bianca come il Satana di Milton del Paradiso Perduto si pone a Dio, ovvero un ribelle che alterna violenza e disperazione contro l’ordine supremo. (La memoria riporta a Cressida, nome della protagonista di un romanzo di Oates che scompare nel nulla "con l'apparente facilità con cui un serpente contorcendosi si libera della pelle ormai secca e logora", e Scomparsa è appunto il titolo).

I fratelli Karamazov invece, capolavoro russo portavoce di contraddizioni individuali e collettive, è ritenuto espressione massima dell’epigrafe evangelica «In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto», i cui personaggi sono in continuo divenire, nel quale bene e male si fondono e confondono grazie all’abilità dell’ideatore e dove «i doppi si moltiplicano e sollevano dubbi sul fondamento dell’identità individuale». 

Importante da questo punto di vista, il cosiddetto “patto col diavolo”. Adrian, il protagonista compositore nella versione del Dottor Faust di Thomas Mann, accetta di contrarre la sifilide per avere in cambio il suo genio musicale amplificato a livelli assoluti:

«Non solo tu vincerai le paralizzanti difficoltà del tempo, ma spezzerai il tempo stesso», gli dice Mefistofele. E Nietzsche, citato all’inizio, la cui dottrina esprime con magnificenza le antitesi, ritorna, essendo entrambi, Adrian e lui, “uomini postumi”. Sono cioè in grado di creare sé stessi, mai compresi nel genio se non, appunto, solo da loro stessi. Nietzsche pur essendo esistito in carne e ossa rispetto all’altro costituisce: 

«il fondamento di gran parte della personalità di Adrian, della sua vita, del suo terribile destino di follia, perfino delle sordide circostanze riguardanti il suo fato: l’infezione da sifilide. Come Nietzsche, Adrian vive lontano dall’umanità in una sorta di esilio ascetico; come Nietzsche, viene schernito e odiato per la sua musica barbara, e profondamente ammirato da quei pochi che simpatizzano con lui senza mai capirlo profondamente». 

Nel tragico isolamento dell’io sono caratterizzati dalla più difficile delle condizioni dell’artista, dell’intellettuale. L’arte si pone dunque ai limiti dell’impossibile, dice Oates.

L’autrice di Lockport, classe 1938, ha sempre vissuto la scrittura più come una missione, se non come un'ossessione, indagando negli abissi dell’io, per scrutare l’imperscrutabile, priva di paure e ipocrisie, senza mai fermarsi alla superficie delle cose. Il che trova nella maschera, scelta non a caso dagli editori e che appare infatti nella copertina, il suo simbolo e il suo significato. Fra le tematiche da lei affrontate inoltre c'è la denuncia di un certo perbenismo che affligge molta parte di politica e società americana.

Joyce Carol Oates riesce ad andare davvero ai limiti dell'impossibile: attraverso una profonda ricerca e un accurato studio dell’arte letteraria ci svela i misteri dell’essere umano.

 


Fotografia di Jeremy Sutton-Hibbert / Getty (fonte The New Yorker)

26 dicembre 2024

Leggere per scrivere

Anche quest'anno il mio leggere è stato in prevalenza per scrivere. Ovvero, non per farmi trascinare esclusivamente dalla storia, bensì per ragionare su stile, trama, punti di vista, punteggiature e quali punteggiature e quante, quanti avverbi, quanti aggettivi, poetica dell'autore o autrice (parlo dei grandi del passato, più o meno recente) cosa vuole dirmi, perché vuole dirmelo, che libri leggeva, a chi si ispirava, in che periodo viveva, che studi ha compiuto, che lavoro ha svolto, che vita ha condotto, chi erano i genitori, fortuna o sfortuna nei sentimenti, problemi di salute, eccetera, eccetera. Non per un giudizio morale o etico, o peggio, moralistico,  ma proprio e solamente per conoscere, capire da dove (più che dove, direi quando e perché, da dove è il giusto mistero dell'arte. Il come, forse il più importante di tutti) quella determinata creazione artistica è venuta, e imparare. Conscia che i grandi del passato, più o meno recente, stanno lì a guardare e a guardarci, e chissà con quale reazione. A loro, e solo a loro, è necessario rimanere attaccati se non si vuole finire col cervello ammorbato dall'insulsaggine imperante. Conoscerli, imitarli, copiarli - anche copiando s'impara - e soprattutto leggerli. 

Questo discorso, oltretutto, non significa affatto che siano state, le mie, delle letture cosiddette  professionali, perché non sono né un critico letterario né un docente di scrittura o un editor. A me interessa scrivere, quando e se ho qualcosa da dire di possibilmente interessante o bello o, perché no, utile, nel senso di non inutile, e leggere con attenzione. Difficile tornare indietro. La pubblicazione, quella col timbro "visto si stampi", appartiene invece a un'altra dimensione, direi, spazio-temporale. 

Ovviamente non c'è nulla di male a leggere per un personale piacere, è il bello della lettura, e nemmeno a scrivere con intenti commerciali, per così dire. Ognuno fa le sue scelte e ha i suoi obiettivi. 

A nuove letture. 

A nuove scritture. 

A nuovi piaceri. 


10 dicembre 2024

Vivian Maier e la gloria postuma


             

(Autoritratto di Vivian Maier, 18 ottobre, 1953, New York /fonte foto vivianmaier.com)


Che un artista abbia successo in vita non è un fatto scontato. C'è chi la fama l'ha inseguita e avuta, c'è chi l'ha ottenuta e gliene importava poco di ottenerla, c'è chi l'ha avuta tardi o troppo tardi. Resta comunque fermo che il valore di un artista e soprattutto delle sue opere lo si misura col tempo. 

Un caso emblematico e curioso di successo tardivo è quello di Vivian Maier, ma vedremo altri esempi, come Goliarda Sapienza o Guido Morselli nella letteratura. 

Una donna dall'esistenza anonima che ha trovato una consacrazione artistica dopo la morte. In vita svolse un solo mestiere: la baby sitter presso famiglie benestanti americane. Vivian Maier nacque a New York nel 1926 e lavorò a lungo a Chicago. Aveva una grande passione: la fotografia. Ha fotografato di tutto, in particolare volti e oggetti ritratti nelle strade, cogliendone la vera essenza, tra luci e ombre- reali e metaforiche - compresa se stessa. È considerata da più parti una antesignana della street photography ed è richiestissima. Di lei infatti si parla molto, anche in Italia. Diverse le retrospettive. Fino al 2019 erano ben 15 le mostre dedicategli (fonte Artribune). L'ultima ancora in corso è alla Reggia di Monza inaugurata il 17 ottobre e si concluderà il 26 gennaio 2025, dedicata all'opera inedita (https://vivianmaierunseen.com/). 

Non mancano di certo i libri che la riguardano.  Chissà se  Vivian Maier gradirebbe queste attenzioni. È stata infatti una donna riservata. Talmente riservata da apparire misteriosa e questo ne ha alimentato il mito. Ma del mito, una volta che c'è, è difficile limitarne i confini. 

Per gli elementi biografici principali su Maier è sufficiente una rapida ricerca in rete. Tuttavia, per chi volesse approfondire, in libreria si può trovare una biografia appassionante e appassionata dal titolo Vita di Vivian Maier pubblicata in Italia da Utet, nel 2022, scritta da Ann Marks, nella traduzione di Chiara Baffa, contenente numerose immagini, altrettante fonti, anche medico-psichiatriche, interviste e testimonianze. 

Il volume è interessante perchè non solo si pone l'obiettivo logico di raccontare la vita di Vivian ma vuole cercare di capire il perchè di alcune sue scelte, contestualizzandole, prima fra tutte quella di aver nascosto praticamente a chiunque la propria vocazione. 

Vivian Maier è stata sicuramente tante cose diverse e contrarie, a partire dalle origini: francesi rurali e statunitensi urbane. Persino i riscontri dei bambini, ora adulti, che ha accudito sono contraddittori. Comunque, nonostante un'infanzia non facile - una madre instabile, un padre alcolista e violento e un fratello tossicodipendente e schizofrenico finito in riformatorio - ha fatto la vita che voleva, come evidenziato nel sottotitolo della biografia di Ann Marks: La storia sconosciuta di una donna libera. 

È riuscita a viaggiare in giro per il mondo, all'epoca non facile e non sostenibile per tutti, grazie ad alcune rendite, portando ovviamente con sè la macchina fotografica. Fu una autodidatta e si perfezionò con l'acquisto di uno strumento costoso e professionale, una Rolleiflex. In famiglia comunque la fotografia è stata presente e un'amica della madre era un'apprezzata fotografa, Jeanne Bertrand, che trasmise la passione a madre e figlia. 

Ma al di là di questo, come mai adesso si parla di Vivian Maier? La scoperta è dovuta a un caso fortuito. Tutto inizia nel 2007 quando un collezionista, di nome John Maloof, acquista alcuni scatoloni pieni di fotografie che sperava di usare per un libro che stava scrivendo. Da quel momento comincia un' indagine che lo porta a scoprire quel talento nascosto e una volta scoperto ne realizza un documentario, uscito nel 2014, Alla ricerca di Vivian Maier il titolo, ottenendo una candidatura agli Oscar. La gloria postuma era compiuta. 

È giunta alla morte anziana e sola, inerme e in ristrettezze economiche e ciò non ha giovato alla "causa" di John Maloof. Le illazioni si sono susseguite  ed è stato accusato di sensazionalismo in mancanza di una precisa volontà della donna riguardo al suo "testamento artistico", ovvero se desiderasse o no essere scoperta. 

Mentre dal lavoro meticoloso della biografa, durato sei anni, emerge altresì un interessante spaccato della condizione femminile e le differenze fra classi sociali nell'America degli anni che vanno dai Quaranta ai Sessanta del Novecento.

Per concludere, una bella citazione presente nel saggio, di Susan Sontag:

"Fotografare significa appropriarsi della cosa che si fotografa. Significa stabilire col mondo una relazione particolare".









30 novembre 2024

"Qualcosa per il dolore", (su Solo Libri

Ho scritto di nuovo, su Solo Libri, di Gerald Murnane, scrittore australiano considerato dai bookmakers tra i probabili vincitori del Premio Nobel per la Letteratura. 

Dopo le Le pianure stavolta:

Qualcosa per il dolore. Memorie dal mondo dell'ippica



 Foto tratta dal sito Ippodromi Snai. 

18 novembre 2024

"Le pianure" di Gerald Murnane

Scrivo di pianure, su Solo Libri. Pianure non solo in senso fisico, bensì anche come luogo interiore.

Per chi, come me, in pianura ci è nato
Per chi ci ha vissuto
Per chi ci vive ancora.
E per tutti gli altri. Soprattutto per gli altri.


Link all'articolo: Le pianure






Gerald Murnane, foto dal web

25 ottobre 2024

Edith Stein e l'empatia: da problema a stile di vita

 



Si sentono spesso termini che, soprattutto nei social, fanno presa sugli utenti. Non sempre però se ne intuisce la loro portata. Resilienza, talento, empatia, per citarne alcuni. Cosa sono veramente? Sono risorse o barriere? L'empatia, per esempio, appare sempre più necessaria in un mondo dove gli egoismi o anche solo l'isolamento - com'e avvenuto a seguito della pandemia - hanno portato a dei cambi di prospettiva nelle vite di molte persone. Può essere utile capire qualcosa in più grazie a chi, all'empatia, ha dedicato l'esistenza e se ha dedicato l'esistenza ci sarà stata ragione per dare una ragione a noi. 

La parola 'empatia' deriva dal greco εμπαθεία (empatéia, a sua volta composta da en- "dentro", e pathos, "sofferenza o sentimento"), che veniva usata per indicare il rapporto emozionale di partecipazione che legava l'autore-cantore al suo pubblico. Il termine "empatia" è stato equiparato a quello tedesco Einfühlung o per meglio dire, traduce il termine tedesco. Coniato, quest'ultimo, dal filosofo Robert Vischer (1847-1933) e, solo più tardi, tradotto in inglese come empathy. Vischer ne ha anche definito per la prima volta il significato specifico di simpatia estetica. In pratica il sentimento, non altrimenti definibile, che si prova di fronte ad un'opera d'arte. Già suo padre Friedrich Theodor Vischer aveva usato il termine evocativo einfühlen per lo studio dell'architettura applicato secondo i principi dell'Idealismo.

Nelle scienze umane, l'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale. Fondamentali, in questo contesto, sia gli studi pionieristici di Darwin sulle emozioni e sulla comunicazione mimica delle emozioni, sia gli studi recenti sui neuroni specchio scoperti da Giacomo Rizzolatti, scopritore dei neuroni-specchio, che confermano che l'empatia non nasce da uno sforzo intellettuale, ma è bensì parte del corredo genetico della specie.

Nel linguaggio corrente, l'empatia è l'attitudine a offrire la propria attenzione per un'altra persona, mettendo da parte le preoccupazioni e i pensieri personali. La qualità della relazione si basa sull'ascolto non valutativo e si concentra sulla comprensione dei sentimenti e bisogni fondamentali dell'altro.

Le innumerevoli definizioni che sull’empatia si sono succedute nel corso degli anni e che l’hanno collocata ora nell’ambito della dimensione prettamente affettiva, ora in quella prettamente cognitiva, ne hanno ridotto il significato profondo. Molti sono stati i ricercatori che si sono interessati a questo tema con l’intento di sottolinearne la complessità che ne caratterizza l’anima stessa. Proprio in questa prospettiva si colloca la definizione di empatia della scienziata tedesca Bischof-Kohler, secondo la quale l’empatia è la capacità di comprendere l’altro attraverso la condivisione diretta e immediata del suo stato affettivo, dove malgrado tale condivisione, il soggetto che empatizza conserva la coscienza che tale stato affettivo è lo stato affettivo dell’altro. Questo, in altri termini, sta a significare che considerare il processo empatico un’esperienza emotiva di condivisione, mediato dalla dimensione cognitiva, diventa garanzia a supporto della natura multidimensionale dell’empatia stessa. 

L'empatia è stata più volte analizzata anche da filosofi come Max Scheler, Sigmund Freud o Carl Rogers.  Una sola però ha dedicato la sua vita al tema a partire dalla sua tesi di laurea che è diventata poi un'opera di riferimento imprescindibile. Si tratta di Edith Stein. Nata a Breslavia nella bassa Slesia (allora in Germania) il 12 ottobre 1891; era l’ultima di undici fratelli di una coppia di commercianti di origini ebraiche. Il giorno in cui nacque era anche quello dedicato alla massima festa ebraica, lo Yom Kippur, giorno della riconciliazione. Il padre, Sigfrid Stein, commerciante di legname, muore improvvisamente durante un viaggio d’affari, quando Edith ha solo ventuno mesi. È allora la madre, Auguste Stein Courant, a doversi fare carico da sola di tutta la famiglia e mandare avanti anche l’azienda di commercio di legnami, ereditata dal marito. Auguste Stein educa i figli ad un comportamento responsabile ed operoso, all’altruismo, ad uno stile di vita sobrio e parsimonioso.

Edith si convertì al cattolicesimo dopo un periodo di ateismo iniziato ai tempi dell'adolescenza. Entrò nel monastero carmelitano a Colonia nel 1934 e prese il nome di Teresa Benedetta della Croce.  Venne arrestata nei Paesi Bassi dai nazisti e rinchiusa nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau dove trovò la morte. Nel 1998 papa Giovanni Paolo II l'ha proclamata santa e l'anno successivo l'ha dichiarata compatrona d'Europa.

L’interesse principale per Edith Stein è l’io, centro della persona, e questo interesse risale al tempo, appunto, della sua dissertazione accademica, discussa nel 1916 (relatore il grande filosofo Edmund Husserl), intitolata Sul problema dell’empatia. Già dalle prime pagine di questo lavoro la ricerca appare focalizzata sull’essenza dell’empatia, verso cui ci indirizza "il metodo della riduzione fenomenologica" (Bettinelli). 

Sostiene Stein: "si può dubitare se ciò che io vedo esiste prima di me. È possibile ingannarsi […] Ma ciò che non posso escludere, ciò che non è soggetto a dubbio, è la mia esperienza della cosa insieme col correlato fenomeno. Dunque l’esperienza che io ho di me è legata anche alla conoscenza dell’altro che, a sua volta, mi consente di afferrare “strati inferiori” che io stesso non conosco. In questo senso l’empatia è un sentimento calato nel nostro esperire vivente rivolto verso gli altri e, dunque, si colloca come ponte tra le due rive del fiume della vita personale e collettiva; benché infatti l’interesse primario sia rivolto alla persona nella sua unicità, il valore della persona risalta nell’incontro con gli altri e nell’interazione dinamica che culmina appunto nel momento empatico: luogo privilegiato di ricerca della verità".

Così la ricerca sull’empatia non si circoscrive al limite angusto del singolo elemento psicologico, ma con essa si gioca una sfida più grande, afferma Stein, ovvero, prendere coscienza dell’alterità e individuare il rapporto fra elemento soggettivo e oggettivo.

L’empatia costituì per Edith Stein un tema dominante fin dagli anni di studio a Breslavia dei quali ricorda come Husserl, nel corso su Natura e Spirito, avesse messo in luce il fatto che un mondo oggettivo esterno può essere sperimentato solo da diversi soggetti in rapporto fra loro, cioè da una molteplicità di individui conoscenti in rapporto di scambievole comprensione, per cui l’esperienza di altri individui sarebbe presupposta alla conoscenza del mondo esterno . Che l’io e l’altro vivano un rapporto di scambievole conoscenza senza che nessuno dei due risulti annullato o subordinato, ma invece ciascuno sia in certo modo avviato ad essere se stesso attraverso l’esperienza dell’alterità, implica però anche il forte rischio dell’invasione di stereotipi culturali, di convenzioni sociali, della natura, come anche il rischio di perdersi o trasfigurarsi in entità oggettive, in ideali sovraindividuali o, ancora, quello di voler essere uno e di ricostruire una mitica fusione amorosa del due o dei molti. In questi rischi c’è però il germe di ciò che salva: l’empatia, che Edith Stein ha liberato dallo stereotipo romantico ed estetizzante, mettendola con audacia nello stesso luogo in cui, per il maestro Husserl si costituisce il rapporto con il mondo oggettivo. L’empatia è l’atto paradossale attraverso cui la realtà di qualcos'altro, "di ciò che non siamo (…) diventa elemento dell’esperienza intima: quella del sentire insieme, del desiderio dell’altra, dell’altro, che produce ampliamento ed espansione verso ciò che è oltre, imprevisto" (Butterelli-Boella). Dell’empatia si possono vivere differenti esperienze: nel linguaggio, nelle relazioni amorose o amicali, tra insegnante ed allievo, nella narrazione e lettura, in tutta la vasta dimensione in cui nella nostra vita irrompe con forza l’alterità; "ed è proprio in questo scambio reciproco di esperienze e di relazioni umane che si comprende in modo pieno l’umanità. Senza la possibilità del confronto e del rapporto con l’altro non si riesce neppure a guardare nella profondità di se stessi" (Brezzi). L’apertura agli altri è condizione per la fondazione di una vera comunità umana, che si può realizzare attraverso l’esperienza corporea dell’espressione teatrale con dei piccoli allievi, oppure con il vissuto della compassione che, per la filosofa contemporanea Martha Nussbaum, è il punto di partenza della nostra umanità .

L'empatizzare è molto distinto anche dal cosentire. In questo caso, Stein sceglie l'esempio della gioia di uno studente per aver superato un esame: nel cosentire mi immetto nell'avvenimento del buon esito dell'esame, e quindi in quello per cui egli (cioè il compagno di studi) gioisce"; io gioisco con lui per questo evento. Empatia al contrario significa percepire la stessa gioia che lo studente ha in sé: "Nell'empatizzare, colgo la sua gioia e ciò facendo mi traspongo in essa" . 

Allo stesso modo, l'empatizzare (Einfühlen) e l'unisentire (Einsfühlen) sono due atti diversi. Quando gioisco di uno stesso avvenimento o di uno stesso oggetto di cui un altro gode, questo mi può condurre al fatto che non più solo io e lui, ma noi godiamo, noi ci uni-sentiamo nella gioia dello stesso oggetto. Ma anche questo è un processo nel quale l'atto conoscitivo è indirizzato all'oggetto comune della gioia, ma non alla stessa gioia dell'altro. Quindi "non è mediante l'unisentire che facciamo esperienza vitale degli altri, ma mediante l'empatizzare", in quanto solo "mediante l'empatia l'unisentire e l'arricchimento della propria esperienza vitale diviene possibile" o può divenirlo. 

Nel caso dell'empatia, afferma Stein, abbiamo a che fare con una specie di atti di esperienza vitale sui generis: l'empatia, che abbiamo cercato di prendere in considerazione e di descrivere, è, in generale, "esperienza della coscienza estranea" . Dunque affronta la questione di come si sviluppa un tale empatizzare in "una coscienza estranea". Per questo premette alcune definizioni: secondo la teoria dell'imitazione (Nachahmungtheorie), per esempio, elaborata da Theodor Lipps, in me si realizza l'esperienza della vita psichica estranea, mediante la quale imito ("non esteriormente, ma “interiormente”) l'azione di un altro o la sua reazione ad una corrispondente sopravvenienza (nell'esempio portato, l’ "atto visto fare" da lui), partecipando così al vissuto interiore in tal modo espresso. Allora io giungo in questo dato modo, non al fenomeno del vissuto altrui, ma ad una mia propria esperienza, che l'azione vista fare dall'altro, risveglia in me.

Come l'imitazione, così anche l'associazione ad essa collegata, non conduce realmente a "cogliere la vita psichica altrui"; in questo caso si escludono le sensazioni che, in seguito ad una certa azione, io stesso ho od ho avuto intorno alle sensazioni dell'altro. Nel caso esemplare proposto da Edith: "Vedo qualcuno battere un piede rabbiosamente; mi viene in mente come io stessa ho battuto il piede con rabbia; nello stesso tempo mi si rappresenta la rabbia che mi aveva allora colto, per cui dico a me stessa: l'altro è ora arrabbiato come lo sono stata io" . In questo modo ho ricevuto in rappresentazione non il percepire dell'altro, ma la mia propria percezione richiamata alla memoria, e di qui proiettata nell'altro. 

Lo stesso vale per la inferenza per analogia (Analogieschluß), che coglie l'esperienza psichica dell'altro, semplicemente sapendo che di norma alcuni modi comportamentali esteriori determinano altrettante sensazioni interiori. Sebbene questo nel singolo caso possa colpire veramente, si deve però pensare secondo la studiosa che: "L'inferenza per analogia può prendere il posto dell'empatia che forse non ha luogo, e non comporta l'acquisizione di un'esperienza, ma realizza una conoscenza più o meno attendibile del vissuto estraneo".

L'empatia, così come Stein la intende, è certamente distinguibile rispetto ad atti conoscitivi simili, ma non sufficientemente identificabile in definizioni positive. In che modo avvenga l'empatia, si può infatti solo descrivere e le parole che la descrivono sono come delle finestre, attraverso cui siamo costretti a sbirciare la realtà significata. Possiamo intravedere l'empatia che avviene in un altro: un esempio evidente è rappresentato dalla stessa Edith Stein, che secondo Waltraud Herbstrith, carmelitana tedesca, era per natura un "genio dell'amicizia”, ma possiamo anche intravedere, nella propria coscienza, la capacità di potersi empatizzare in un dolore così come nella gioia. Forse è necessaria proprio l'empatia, per poter comprendere l'empatia. Posso effettivamente, come afferma la stessa Edith, "anche empatizzare delle empatie; cioè, tra gli atti di un altro, che colgo nell'empatizzare, possono esserci anche atti di empatia, nei quali uno coglie gli atti di un altro. Questo 'altro' può essere una terza persona ­ oppure io stesso" .

Si mostra, nell'analisi di Edith Stein, che l'oggetto conoscitivo dell'atto empatico, l’esperienza vitale degli altri, può avere contenuti molto diversi. In modo corrispondente alla composizione dell'essere umano come una unità di corpo, anima e spirito, si può trattare di una esperienza vitale dell'altro corporale, psichica o spirituale. Edith Stein dedica perciò due dei tre capitoli della sua opera a una riflessione molto estesa sulla costituzione ontologica dell'essere umano, che lei considera come "individuo psicofisico" (capitolo III) e successivamente come "persona spirituale" (capitolo IV), per giungere in questo modo a descrizioni ancora più dettagliate dell'atto empatico. Così ella parla ad esempio della "presentificazione empatizzante" in relazione all'esperienza vitale corporale dell'altro (un po' come il soffrire di dolori fisici), della "empatia sensoriale" oppure della "endosensazione" (nei suoi sentimenti e sensazioni psichiche, come pressapoco la gioia o la paura) di "comprensione post-vitale" o "coglimento empatizzante" del  mondo spirituale. 

Nel campo dell'esperienza vitale spirituale si apre al soggetto empatizzante "un nuovo regno di oggetti: il mondo dei valori": viene incontro cioè l'intero "mondo della storia e delle culture", dal quale un essere umano è plasmato e che egli stesso ­ in un certo modo continuamente  conforma, e che è appunto l'intero mondo dei valori, nei quali egli pensa, sente e opera. 

Viene incontro anche e soprattutto l'essere umano stesso nel suo valore peculiare. L'empatia conduce ad una sensazione di valore, nella quale ci è data la persona dell'altro e, scrive Stein: "Come negli atti propri originari dello spirito si costituisce la propria persona, così negli atti vissuti empaticamente si costituisce l'altra persona". È in definitiva lo stesso altro, che attraverso l'empatia viene percepito .

Stein non teme, in questo contesto ­ pur all'interno del linguaggio dell'analisi scientifica, ­ di parlare di questo atto dell'empatia come di un "atto di amore": nell'atto d'amore" si compie "un afferrare, ossia un intendere del valore della persona"; e conclude: "Noi non amiamo una persona perché fa il bene, il suo valore non consiste nel fatto che fa il bene (anche se il suo valore può rivelarsi in ciò), ma nel fatto che la persona stessa è pregevole e noi la amiamo per se stessa" .

L'empatia è possibile essenzialmente solo nel typos essere umano. Ma poiché questo typos è simile, almeno nel suo carattere corporale, ad altri esseri, posso empatizzare in un certo grado anche nel dolore di un animale. "Quanto più tuttavia ci allontaniamo dal typos essere umano, tanto minore diviene la quantità di possibilità di attuazione" dell'atto empatico. E poiché nel campo dello spirito "ogni singola persona è per se stessa un typos, potrò d'altra parte empatizzare in un'altra persona, solo nella misura in cui io stesso sono divenuta persona: "Solo chi si sperimenta come persona, come totalità che possiede un senso, può capire altre persone"; se no "ci rinchiudiamo nella prigione della nostra particolarità; gli altri ci diventano un enigma oppure, ancora peggio, li modelliamo a nostra immagine e distorciamo così la verità". 

Quanto più un essere umano ha trovato il proprio "se stesso", tanto più può diventare un "maestro di comprensione" o, come dice, Edith Stein: "un maestro dell'amore".

Mediante l'empatia percepisco l'altra persona nel suo valore peculiare e con il mondo di valori che essa si è fatto proprio. Ma questo ha anche come conseguenza una retroazione su di me: empatizzando nell'altro, si costituisce in me, soggetto empatizzante, un nuovo Io. "Ogni coglimento di altre persone diverse", secondo Edith, "può divenire fondamento di una comparazione di valore"; l'essere umano, che è stato percepito nell'empatia ­ nel suo valore e con i suoi valori ­ ci chiarisce "quello che noi siamo in più o in meno degli altri". Allora, "empatizzando, noi ci imbattiamo in campi di valori a noi preclusi, ci rendiamo coscienti di un proprio difetto o disvalore"; in questo modo, nella comprensione dell'altro, può giungere a sviluppo, "quanto in noi sonnecchia". ­ 

Giovanni della Croce (1542-1591), che due decenni dopo con le sue opere, tanto influsso avrà su Edith, ha forse voluto significare la stessa esperienza quando ha scritto: "L'amore rende simili l'amante e l'amato" ­ un "principio fundamental indiscutible" per il mistico spagnolo, determinando l'intero suo pensiero.

Ritroviamo qui del tutto la situazione personale dell'autrice al tempo in cui lavorava alla sua dissertazione quando, come esempio per questa esperienza vitale, nota sobriamente: "Così empatizzando, riesco a comprendere il tipo dell'homo religiosus, a me essenzialmente estraneo, e lo capisco, sebbene quanto di nuovo là mi si presenti, mi rimane sempre incompleto".

Vale la pena evidenziare che la filosofa era ancora lontana dalla fede quando termina il suo lavoro giovanile con una provocazione interessante che vale certamente la pena raccogliere. Essendo la persona anche spirito, a questo livello, dunque, con chi può empatizzare? Solo con altre persone?

Se dunque l'empatia ha una componente spirituale anche lontani dalla fede, perché non considerarla come stile di vita. E se fosse una pratica culturale? 




Bibliografia


Bettinelli C., Il pensiero di Edith Stein, Vita e pensiero, Milano, 1976.

Bella L. - Buttarelli A., Per amore di altro. L’empatia a partire da Edith Stein, Edizioni Cortina, Milano 2000, p.8-9.

Brezzi F. (a cura di) Amore ed empatia, Franco Angeli, Milano, 2003, p. 50.

Enciclopedia della Filosofia e delle scienze umane, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1996.

Herbstrith W., Edith Stein. Vita e testimonianze, Città Nuova, Roma, 1999.

Nussbaum M. , Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone, Il Mulino, Bologna, 2002.

Stein E. , Sul problema dell’empatia, a cura di Elio Costantini, Erika Schulze Costantini, ed. Studium, Roma, 2012.



12 ottobre 2024

Tutta l'umanità del non-umano


 



«Sì, Flush era degno di Madamigella Barret; Madamigella Barret era degna di Flush. Il sacrificio era grave; ma doveva pur compiersi. Così fu che un bel giorno, con tutta probabilità ai primordi dell'estate del 1842, si poteva vedere una singolare coppia incamminarsi giù per Wimpole Street - una signora anziana piccoletta, rotondetta, dal lucido viso rubicondo e dai lucidi capelli d'argento, la quale vestiva dimesso e conduceva al guinzaglio un giovane Cocker Spaniel dal pelo dorato, tutto brio, tutto vivacità, e assai ben allevato. Giunti quasi in fondo alla via sostarono finalmente al n. 50. Non senza trepidazione, Madamigella Mitford tirò il campanello».

La citazione descrive la scena che prelude a un cambiamento di vita e di padrona per un cagnolino di nobili origini, razza cocker spaniel, protagonista di un breve testo che Virginia Woolf scrisse nel 1933: Flush. Biografia di un cane. Diverse le edizioni italiane. Qui è nella versione tradotta da Alessandra Scalero per La tartaruga, 2012.

Narrato dal punto di vista dell'animale la scrittrice inglese sonda in modo ironico e solo in apparenza leggero, le vicende personali della poetessa Elizabeth Barrett Browning. Costretta a casa per una malattia,  riceve una visita che cambierà le sorti di tutti.  Da quel momento si instaurerà un rapporto di simbiosi fra lei e il suo nuovo amico: Flush. La compagnia fedele del cane l'accompagnerà nei momenti allegri e spensierati e in quelli difficili. Dalla conoscenza e matrimonio (in gran segreto) col poeta Robert Browning, al viaggio in Italia tra Firenze e Pisa e la nascita di un figlio. 

Ponendosi nella prospettiva inedita non umana, Woolf mostra sentimenti umani. La devozione, la rabbia, la gelosia - quando Flush per esempio ritorna ad essere solo un cane in seguito all'amore della padrona verso l'uomo - e il lettore non può che venirne trascinato e coinvolto. La padrona invece, riuscirà ad affrontare una banda di malviventi che rapisce Flush a fini di estorsione. Un escomatage narrativo che mette in evidenza il contrasto tra le umide, buie vie della Londra vittoriana e le contraddizioni della stessa, con il sole delle due città d'arte italiane del viaggio. Viaggio inteso non solo in senso fisico ma anche dell'anima e dei sentimenti. 

L'idea del libro venne all'autrice, per sua stessa ammissione,  quando conobbe i dettagli della storia d'amore fra Elisabeth Barrett, di cui era fiera estimatrice, e Robert Browning, appunto, e ne rimase colpita. 

Virginia Woolf curiosamente amava identificarsi con varie specie animali e lo faceva spesso per comunicare con gli altri, per descrivere il suo essere ed esserci nel mondo e nelle cose. 

Flush è un'opera ingiustamente considerata fra le minori nella produzione woolfiana ma è difficile forse, per quello che oggi abbiamo, operare in termini di classificazione. In ogni caso, merita anch'essa la lettura.