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14 gennaio 2025

L'inverno e le sue attese

 

[Dall'archivio di Sul Romanzo] 

Alessandro Vanoli, storico di professione, esperto di area mediterranea e del rapporto fra questa e il mondo islamico, ci conduce attraverso i secoli per un lungo viaggio nelle stagioni. Poiché siamo nel pieno del periodo quale modo migliore di affrontarlo con la lettura di Inverno. Il racconto dell'attesa, il primo volume di una collana appositamente dedicata, edita da Il Mulino. 

Il freddo è, come prevedibile, la chiave di volta di questo saggio narrativo. Cheimòn è l'antico nome greco dell'inverno con una radice indoeuropea, ancora più antica, him, che vuol dire "freddo" e "gelo". Per poi adottarlo dai romani con hiems e hibernum. A un passo ormai dall'italiano 'inverno' ma anche della più terribile e glaciale 'ibernazione' . 

È incredibile quanti fatti, battaglie, scoperte, nascita di sport all'inizio rudimentali e poi via via più moderni, siano avvenuti con temperature tali da paralizzare mani e piedi e intorpidire la mente. Molte di queste vicende si conoscono bene, altre un pò meno, altre fanno talmente parte delle nostre vite che le diamo quasi per scontate, senza sapere quando siano accadute e perché.

Dell'inverno più remoto, quello di cinquantamila anni fa sappiamo poco o nulla se non grazie a figure rappresentative di caccia o di donne e uomini diversi da quelli di oggi. Gli archeologi fanno sempre nuove scoperte in grado di rivelarci qualcosa di nuovo, sebbene gli anni trascorsi siano tanti. La storia della glaciazione però ha di fatto permesso la conquista del mondo.

Le stagioni hanno condizionato e condizionano tuttora nel bene e nel male le abitudini e gli stili di vita di tutti noi e al centro del l'indagine di Vanoli non poteva mancare il Natale  perché esso è tante cose assieme: è una festa del rinnovamento del mondo, una festa del solstizio e una festa al centro della storia cristiana, afferma l'autore. A seguire, il carnevale con le sue maschere pagane le cui radici risalgono all'antico. 

Con l'avvento della rivoluzione industriale e delle prime famiglie borghesi provenienti dal ricco Nord Europa nasce una nuova identità e un concetto differente di popoli e Nazioni. Così molte cose sono andate mutando, tra l'arrivo delle fiabe e dei giocattoli, e il personaggio di Santa Claus, che in breve travalicò i confini americani ̶ con i suoi colori rosso accesi ripresi dalla Coca-cola in seguito a uno spot pubblicitario e da cui nacque la falsa credenza che Babbo Natale era un'invenzione della bevanda ̶ e poi la musica, con cui si è iniziato a sognare tra le note di Sogni d'inverno di Čajkovskij o quelle di Vivaldi, e i balletti (uno su tutti: Lo schiaccianoci). Questo non significa, però, che sia tutto consumismo, perché l'autore spiega che dietro tutto questo c'è ben altro perché «uno storico sa che pochi secoli non sono mai la fine del mondo; ma sono sufficienti per creare idee, abitudini, convinzioni che poi crediamo eterne».

Una tappa fondamentale che non tarda a pervenire è poi il «gusto della vacanza» così definito nel testo, con la necessità di spensieratezza unita alla voglia di dedicarsi ad attività di svago, come quelle sportive. Si pensi solo al pattinaggio, inteso più come «rito sociale», a cui è dedicato un capitolo apposito e separato dagli altri sport invernali.

La tecnologia e il progresso hanno modificato molti aspetti e l'inverno è diventato sinonimo di focolare domestico, soprattutto per chi poteva e può ancora permettersi il riscaldamento. L'epoca dei monaci benedettini intirizziti nelle loro vesti semplici e leggere con solo una candela per pregare diventa sempre più lontana.

Le guerre, invece, non sono così lontane nel tempo, e i morti che perirono a causa del gelo rese tutto più terribile. Mario Rigoni Stern fu uno che sopravvisse a quel freddo e parlò per quelli che non ce la fecero attraverso le pagine dirompenti de Il sergente della neve.

A proposito di letteratura, molta parte arriva a noi più forte e intensa proprio perché ambientata in inverno: in Anna Karenina di Tolstoj, fu proprio una tormenta galeotta per l'incontro fatale fra i due protagonisti, per non parlare delle ambientazioni del Dottor Živago di Boris Pasternack, giunte ancora più manifeste con l'adattamento cinematografico del 1965, vincitore di cinque Premi Oscar. Viene ricordato anche il poeta Puškin, il quale con i versi di Mattino invernale si rivolgeva a una donna con cui aveva trascorso la notte e celebrava «l’inverno come estasi dei sensi e del ricordo». Se c'è un Paese che ha fatto delle sue temperature tutt'altro che miti un vero inno, si può ben dire che sia la Russia.

Emblematiche sono infine le esplorazioni dei poli; ci provarono in tanti spinti dal desiderio di scoperta e dalla ferrea volontà di progredire, ma il ritratto più appassionato che Vanoli fa è quello di Robert Scott e Roald Amundsen e delle loro spedizioni nel primo Novecento. Insieme alle sofferenze che patirono sui ghiacci, infatti, dimostrano quanto l'umanità ha avuto bisogno di uomini coraggiosi per evolversi.

Il periodo invernale come metafora di vita e, potremmo dire, sospensione della vita, di quell'intimità e quel raccoglimento necessari al corpo e allo spirito, il bisogno della solitudine e di ritmi più lenti, in preparazione del rifiorire. Così il letargo per molti animali, bisognosi di un caldo rifugio ma pronti e rinnovati per affrontare quello che la natura riserverà. 

A impreziosire Inverno. Il racconto dell'attesa alcune immagini di celebri dipinti (in copertina un dettaglio di "Cacciatori nella neve" di Pieter Bruegel il vecchio) per ricordare che l'arte, più di tutti, ha reso immortali le stagioni.


Sotto, gli altri volumi:









5 gennaio 2025

Al di là del bene e del male, ovvero "Ai limiti dell'impossibile", di Joyce Carol Oates

 


[Dall'archivio di Sul Romanzo] 


Più grande tra tutti sarà colui che può essere il più solitario,

il più nascosto, il più diverso, l’uomo al di là

del bene e del male, il signore delle proprie virtù, ricco

quant’altri mai di volontà.

Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male



Questa citazione è il fulcro intorno al quale ruota il libro Ai limiti dell’impossibile. Forme tragiche in letteratura che troviamo anche riportata, edito da Il Saggiatore nel 2019, nella traduzione di Giulia Betti.  Si tratta di una raccolta di saggi scritti da Joyce Carol Oates tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso quando davanti a sé aveva ancora tanta strada da percorrere nella quale avrebbe spaziato dai romanzi ai racconti, dal teatro alle poesie, compresa la platea di ragazzi e bambini, nonché i più vari sottogeneri, dal gotico al realistico, col risultato di essere fra le più prolifiche nel panorama internazionale distinguendosi per il suo eclettismo. 

A metà strada tra il saggio critico e il filosofico con sfumature psicologiche, in sole 240 pagine viene elaborata una colta analisi di produzioni narrative e pièce teatrali, che solo una persona con notevole spessore letterario come Joyce Carol Oates, illustre scrittrice americana data ogni volta fra i favoriti del Nobel per la letteratura, poteva realizzare. Allo scopo di individuare e approfondire il nucleo tragico della e nella finzione artistica adduce molteplici voci critiche, consapevole che nella vita siamo tutti noi “attori”, divisi tra ciò che è bene e ciò che è male, chiusi in tale dicotomia.

L’introduzione, onirica e all’apparenza consolatoria, ci avvisa in modo piuttosto stentoreo:

«L’eroe al fulcro della tragedia esiste affinché possiamo testimoniare, nella sua distruzione, il rovesciamento delle nostre vite private. Ci adattiamo allo spettacolo di una forma d’arte, paralizziamo il nostro scetticismo per vedere oltre l’artificio della stampa o del palco e condividiamo in un sogno misterioso la necessaria perdita dell’io, perfino mentre l’io in questione sta leggendo oppure osservando, perdendoci nel testimoniare la morte di qualcuno cosicché, nel nostro mondo di umani, questo eroe possa rinascere ancora. L’eroe tragico muore ma viene ridato alla luce eternamente nei nostri sogni; la rudezza del nostro desiderio per un assoluto viene riscattata dalla bellezza che così spesso avvolge questo sogno. Si può spiegare il sogno ma mai la sua bellezza.  L’eroe muore nella nostra immaginazione mentre, senza poter fare niente, viviamo le nostre vite che non sono mai opere d’arte – perfino le vite inermi degli «artisti»! – e non sono mai comprese. La sofferenza viene espressa nella letteratura tragica e perciò questa letteratura è irresistibile, una terapia per l’anima». 

Quindi, qual è il discrimine fra realtà, apparenza e immaginazione? Quanto siamo consci, se lo siamo, del nostro lato oscuro?

Beninteso, lo scopo del presente volume non è fornire in sé per sé una risposta a questi interrogativi, semplicemente perché non ce n’è bisogno. Sono i soggetti presi dalla storia e dalla letteratura scelti da Oates a farlo per chi legge. 

Il testo è suddiviso in nove capitoli, due dei quali dedicati a Shakespeare e altri due a William Butler Yeats. Gli altri riguardano nell’ordine Melville, Dostoevskij, Čechov, con un interessante raffronto al teatro di Beckett e una nuova definizione di “assurdo”, e Thomas Mann. Chiude Eugène Ionesco, il più contemporaneo dell’elenco.

Se – indicando qui i più noti anche per il nostro immaginario – Troilo e Cressida e Antonio e Cleopatra (drammi che Shakespeare pone in essere attingendo dall’antico passato greco e romano) in un vortice di illusioni e disillusioni vengono definiti e finiti dai loro medesimi tormenti  – oltre che essere coppie di amanti – facendosi interpreti di sentimenti ambivalenti, tra ciò che sono e ciò che vorrebbero essere, il capitano Achab di Moby Dick va alla ricerca via mare della propria identità e viene coinvolto in una lotta perenne tra apparenza e realtà. Un eroe tragico che sceglie da solo il suo destino, per quanto questo possa sembrare sbagliato agli occhi degli altri, ed eroe romantico, ponendosi in rapporto alla balena bianca come il Satana di Milton del Paradiso Perduto si pone a Dio, ovvero un ribelle che alterna violenza e disperazione contro l’ordine supremo. (La memoria riporta a Cressida, nome della protagonista di un romanzo di Oates che scompare nel nulla "con l'apparente facilità con cui un serpente contorcendosi si libera della pelle ormai secca e logora", e Scomparsa è appunto il titolo).

I fratelli Karamazov invece, capolavoro russo portavoce di contraddizioni individuali e collettive, è ritenuto espressione massima dell’epigrafe evangelica «In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto», i cui personaggi sono in continuo divenire, nel quale bene e male si fondono e confondono grazie all’abilità dell’ideatore e dove «i doppi si moltiplicano e sollevano dubbi sul fondamento dell’identità individuale». 

Importante da questo punto di vista, il cosiddetto “patto col diavolo”. Adrian, il protagonista compositore nella versione del Dottor Faust di Thomas Mann, accetta di contrarre la sifilide per avere in cambio il suo genio musicale amplificato a livelli assoluti:

«Non solo tu vincerai le paralizzanti difficoltà del tempo, ma spezzerai il tempo stesso», gli dice Mefistofele. E Nietzsche, citato all’inizio, la cui dottrina esprime con magnificenza le antitesi, ritorna, essendo entrambi, Adrian e lui, “uomini postumi”. Sono cioè in grado di creare sé stessi, mai compresi nel genio se non, appunto, solo da loro stessi. Nietzsche pur essendo esistito in carne e ossa rispetto all’altro costituisce: 

«il fondamento di gran parte della personalità di Adrian, della sua vita, del suo terribile destino di follia, perfino delle sordide circostanze riguardanti il suo fato: l’infezione da sifilide. Come Nietzsche, Adrian vive lontano dall’umanità in una sorta di esilio ascetico; come Nietzsche, viene schernito e odiato per la sua musica barbara, e profondamente ammirato da quei pochi che simpatizzano con lui senza mai capirlo profondamente». 

Nel tragico isolamento dell’io sono caratterizzati dalla più difficile delle condizioni dell’artista, dell’intellettuale. L’arte si pone dunque ai limiti dell’impossibile, dice Oates.

L’autrice di Lockport, classe 1938, ha sempre vissuto la scrittura più come una missione, se non come un'ossessione, indagando negli abissi dell’io, per scrutare l’imperscrutabile, priva di paure e ipocrisie, senza mai fermarsi alla superficie delle cose. Il che trova nella maschera, scelta non a caso dagli editori e che appare infatti nella copertina, il suo simbolo e il suo significato. Fra le tematiche da lei affrontate inoltre c'è la denuncia di un certo perbenismo che affligge molta parte di politica e società americana.

Joyce Carol Oates riesce ad andare davvero ai limiti dell'impossibile: attraverso una profonda ricerca e un accurato studio dell’arte letteraria ci svela i misteri dell’essere umano.

 


Fotografia di Jeremy Sutton-Hibbert / Getty (fonte The New Yorker)

5 dicembre 2024

Eugenio Borgna e il suo profondo vivere


(Questo articolo, scritto il 27 novembre scorso, necessita purtroppo di un aggiornamento: Eugenio Borgna ci ha nel frattempo lasciati). 
 

 Unisce la psichiatria all'antipsichiatria, la saggistica all'arte, il silenzio all'ascolto. 
Il suo nome è Eugenio Borgna, ha 94 anni ed è novarese (piccola nota personale e campanilistica, è conterraneo almeno di nascita di chi scrive e gestisce questo blog). Ha dedicato la vita ad aiutare le persone  con disturbi mentali, donne, in particolare. Forse la sua sensibilità è andata rafforzandosi col tempo per aver lavorato decenni nei reparti femminili di psichiatria. Ora è primario emerito dell’Ospedale Maggiore di Novara ed è stato a lungo libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano.

La platea dei suoi saggi è amplissima e varia. Le pagine traboccano di umanità e fiducia verso il prossimo. Gli argomenti che tocca sono quelli legati ai sentimenti e le emozioni umane e non sono scritti in un linguaggio specialistico, semmai tutt'altro: la mitezza, la tenerezza, la depressione, la nostalgia, la speranza, l'importanza delle parole per non ferire. A proposito di quest'ultima tematica, si è rivolto in particolare a genitori e insegnanti con le Le parole che ci salvano

Associare la casistica comune, quella che ha avuto modo di conoscere nell'esercizio della professione, ai casi più o meno noti di fragilità di poetesse e poeti, scrittori e scrittrici, rientra nella sua cifra stilistica. Borgna si concentra spesso sul legame fra creazione artistica e follia, con occhio clinico, certo, ma con stupore insieme. 

Per lui le malattie mentali si curano innanzitutto con l'ascolto, la comprensione vera e il dialogo. Fautore della scienza fenomenologica, ogni evento va studiato partendo dalla fonte, dalle origini che la determinano, dalle cause. Ai pazienti bisogna prima stare accanto, guardarli negli occhi per scrutarne l'anima, indagarne i recessi. Prima viene la persona, dopo la malattia di cui soffre. 

Nelle interviste ha denunciato spesso lo stato in cui versa la psichiatria, con la messa in evidenza delle complesse lacerazioni che la rendono una disciplina arida, relegata a un sapere preconfezionato. 

L'ultimo libro, intenso come al solito seppur breve, è appena uscito per Einaudi, l'editore che lo ha pubblicato finora oltre a Feltrinelli, e approfondisce una tematica per l'appunto femminile, ovvero quella del suicidio, lasciando sullo sfondo, per sua ammissione, l'atto perpetrato dagli uomini. Il titolo è L'ora che non ha più sorelle, riprendendo un verso di uno dei più grandi poeti del Novecento, Paul Celan, che sceglieva di morire nelle acque della Senna. 

Scrive Borgna nell'introduzione: 

«L'ora che non ha più sorelle è l'ultima ora della vita. Quando l'ora del vivere diviene l'ora del morire. […] Ci sono suicidi che nascono da condizioni di vita depressiva e suicidi che nascono da condizioni di vita non patologiche».

E ancora: 

«Nella donna le emozioni si modulano e si modificano in una stretta correlazione tematica con l'ambiente in cui si vive. Sono emozioni nobili e altere, liquide e sensibili all'accoglienza, o al rifiuto, da parte degli altri».

Analizza i casi di Simone Weil, Antonia Pozzi (che ama in particolare) Virginia Woolf, Amelia Rosselli, scava nelle loro parole per osservare e far emergere la bruciante disperazione e fa lo stesso con Margherita, Emilia, Stefania, sue anonime pazienti. Ma c'è spazio per le angosce e i tormenti interiori di Cesare Pavese (col quale non c'è assonanza) e Leopardi. I loro orizzonti, gli orizzonti di tutti loro, sono il motore propulsore del libro e del pensiero di Eugenio Borgna di cui, in questi tempi complicati e frenetici, dove siamo esseri socievoli e "social" più di nome che di fatto, c'è un gran bisogno.









6 novembre 2024

"Finché Marte non ci separi"

 Ho parlato su Sololibri di un saggio che affronta un argomento spesso trascurato, ovvero i viaggi spaziali a scopo commerciale a opera di pochi miliardari e la colonizzazione di un altro pianeta: Marte.

Link all'articolo: Finché Marte non ci separi








25 ottobre 2024

Edith Stein e l'empatia: da problema a stile di vita

 



Si sentono spesso termini che, soprattutto nei social, fanno presa sugli utenti. Non sempre però se ne intuisce la loro portata. Resilienza, talento, empatia, per citarne alcuni. Cosa sono veramente? Sono risorse o barriere? L'empatia, per esempio, appare sempre più necessaria in un mondo dove gli egoismi o anche solo l'isolamento - com'e avvenuto a seguito della pandemia - hanno portato a dei cambi di prospettiva nelle vite di molte persone. Può essere utile capire qualcosa in più grazie a chi, all'empatia, ha dedicato l'esistenza e se ha dedicato l'esistenza ci sarà stata ragione per dare una ragione a noi. 

La parola 'empatia' deriva dal greco εμπαθεία (empatéia, a sua volta composta da en- "dentro", e pathos, "sofferenza o sentimento"), che veniva usata per indicare il rapporto emozionale di partecipazione che legava l'autore-cantore al suo pubblico. Il termine "empatia" è stato equiparato a quello tedesco Einfühlung o per meglio dire, traduce il termine tedesco. Coniato, quest'ultimo, dal filosofo Robert Vischer (1847-1933) e, solo più tardi, tradotto in inglese come empathy. Vischer ne ha anche definito per la prima volta il significato specifico di simpatia estetica. In pratica il sentimento, non altrimenti definibile, che si prova di fronte ad un'opera d'arte. Già suo padre Friedrich Theodor Vischer aveva usato il termine evocativo einfühlen per lo studio dell'architettura applicato secondo i principi dell'Idealismo.

Nelle scienze umane, l'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale. Fondamentali, in questo contesto, sia gli studi pionieristici di Darwin sulle emozioni e sulla comunicazione mimica delle emozioni, sia gli studi recenti sui neuroni specchio scoperti da Giacomo Rizzolatti, scopritore dei neuroni-specchio, che confermano che l'empatia non nasce da uno sforzo intellettuale, ma è bensì parte del corredo genetico della specie.

Nel linguaggio corrente, l'empatia è l'attitudine a offrire la propria attenzione per un'altra persona, mettendo da parte le preoccupazioni e i pensieri personali. La qualità della relazione si basa sull'ascolto non valutativo e si concentra sulla comprensione dei sentimenti e bisogni fondamentali dell'altro.

Le innumerevoli definizioni che sull’empatia si sono succedute nel corso degli anni e che l’hanno collocata ora nell’ambito della dimensione prettamente affettiva, ora in quella prettamente cognitiva, ne hanno ridotto il significato profondo. Molti sono stati i ricercatori che si sono interessati a questo tema con l’intento di sottolinearne la complessità che ne caratterizza l’anima stessa. Proprio in questa prospettiva si colloca la definizione di empatia della scienziata tedesca Bischof-Kohler, secondo la quale l’empatia è la capacità di comprendere l’altro attraverso la condivisione diretta e immediata del suo stato affettivo, dove malgrado tale condivisione, il soggetto che empatizza conserva la coscienza che tale stato affettivo è lo stato affettivo dell’altro. Questo, in altri termini, sta a significare che considerare il processo empatico un’esperienza emotiva di condivisione, mediato dalla dimensione cognitiva, diventa garanzia a supporto della natura multidimensionale dell’empatia stessa. 

L'empatia è stata più volte analizzata anche da filosofi come Max Scheler, Sigmund Freud o Carl Rogers.  Una sola però ha dedicato la sua vita al tema a partire dalla sua tesi di laurea che è diventata poi un'opera di riferimento imprescindibile. Si tratta di Edith Stein. Nata a Breslavia nella bassa Slesia (allora in Germania) il 12 ottobre 1891; era l’ultima di undici fratelli di una coppia di commercianti di origini ebraiche. Il giorno in cui nacque era anche quello dedicato alla massima festa ebraica, lo Yom Kippur, giorno della riconciliazione. Il padre, Sigfrid Stein, commerciante di legname, muore improvvisamente durante un viaggio d’affari, quando Edith ha solo ventuno mesi. È allora la madre, Auguste Stein Courant, a doversi fare carico da sola di tutta la famiglia e mandare avanti anche l’azienda di commercio di legnami, ereditata dal marito. Auguste Stein educa i figli ad un comportamento responsabile ed operoso, all’altruismo, ad uno stile di vita sobrio e parsimonioso.

Edith si convertì al cattolicesimo dopo un periodo di ateismo iniziato ai tempi dell'adolescenza. Entrò nel monastero carmelitano a Colonia nel 1934 e prese il nome di Teresa Benedetta della Croce.  Venne arrestata nei Paesi Bassi dai nazisti e rinchiusa nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau dove trovò la morte. Nel 1998 papa Giovanni Paolo II l'ha proclamata santa e l'anno successivo l'ha dichiarata compatrona d'Europa.

L’interesse principale per Edith Stein è l’io, centro della persona, e questo interesse risale al tempo, appunto, della sua dissertazione accademica, discussa nel 1916 (relatore il grande filosofo Edmund Husserl), intitolata Sul problema dell’empatia. Già dalle prime pagine di questo lavoro la ricerca appare focalizzata sull’essenza dell’empatia, verso cui ci indirizza "il metodo della riduzione fenomenologica" (Bettinelli). 

Sostiene Stein: "si può dubitare se ciò che io vedo esiste prima di me. È possibile ingannarsi […] Ma ciò che non posso escludere, ciò che non è soggetto a dubbio, è la mia esperienza della cosa insieme col correlato fenomeno. Dunque l’esperienza che io ho di me è legata anche alla conoscenza dell’altro che, a sua volta, mi consente di afferrare “strati inferiori” che io stesso non conosco. In questo senso l’empatia è un sentimento calato nel nostro esperire vivente rivolto verso gli altri e, dunque, si colloca come ponte tra le due rive del fiume della vita personale e collettiva; benché infatti l’interesse primario sia rivolto alla persona nella sua unicità, il valore della persona risalta nell’incontro con gli altri e nell’interazione dinamica che culmina appunto nel momento empatico: luogo privilegiato di ricerca della verità".

Così la ricerca sull’empatia non si circoscrive al limite angusto del singolo elemento psicologico, ma con essa si gioca una sfida più grande, afferma Stein, ovvero, prendere coscienza dell’alterità e individuare il rapporto fra elemento soggettivo e oggettivo.

L’empatia costituì per Edith Stein un tema dominante fin dagli anni di studio a Breslavia dei quali ricorda come Husserl, nel corso su Natura e Spirito, avesse messo in luce il fatto che un mondo oggettivo esterno può essere sperimentato solo da diversi soggetti in rapporto fra loro, cioè da una molteplicità di individui conoscenti in rapporto di scambievole comprensione, per cui l’esperienza di altri individui sarebbe presupposta alla conoscenza del mondo esterno . Che l’io e l’altro vivano un rapporto di scambievole conoscenza senza che nessuno dei due risulti annullato o subordinato, ma invece ciascuno sia in certo modo avviato ad essere se stesso attraverso l’esperienza dell’alterità, implica però anche il forte rischio dell’invasione di stereotipi culturali, di convenzioni sociali, della natura, come anche il rischio di perdersi o trasfigurarsi in entità oggettive, in ideali sovraindividuali o, ancora, quello di voler essere uno e di ricostruire una mitica fusione amorosa del due o dei molti. In questi rischi c’è però il germe di ciò che salva: l’empatia, che Edith Stein ha liberato dallo stereotipo romantico ed estetizzante, mettendola con audacia nello stesso luogo in cui, per il maestro Husserl si costituisce il rapporto con il mondo oggettivo. L’empatia è l’atto paradossale attraverso cui la realtà di qualcos'altro, "di ciò che non siamo (…) diventa elemento dell’esperienza intima: quella del sentire insieme, del desiderio dell’altra, dell’altro, che produce ampliamento ed espansione verso ciò che è oltre, imprevisto" (Butterelli-Boella). Dell’empatia si possono vivere differenti esperienze: nel linguaggio, nelle relazioni amorose o amicali, tra insegnante ed allievo, nella narrazione e lettura, in tutta la vasta dimensione in cui nella nostra vita irrompe con forza l’alterità; "ed è proprio in questo scambio reciproco di esperienze e di relazioni umane che si comprende in modo pieno l’umanità. Senza la possibilità del confronto e del rapporto con l’altro non si riesce neppure a guardare nella profondità di se stessi" (Brezzi). L’apertura agli altri è condizione per la fondazione di una vera comunità umana, che si può realizzare attraverso l’esperienza corporea dell’espressione teatrale con dei piccoli allievi, oppure con il vissuto della compassione che, per la filosofa contemporanea Martha Nussbaum, è il punto di partenza della nostra umanità .

L'empatizzare è molto distinto anche dal cosentire. In questo caso, Stein sceglie l'esempio della gioia di uno studente per aver superato un esame: nel cosentire mi immetto nell'avvenimento del buon esito dell'esame, e quindi in quello per cui egli (cioè il compagno di studi) gioisce"; io gioisco con lui per questo evento. Empatia al contrario significa percepire la stessa gioia che lo studente ha in sé: "Nell'empatizzare, colgo la sua gioia e ciò facendo mi traspongo in essa" . 

Allo stesso modo, l'empatizzare (Einfühlen) e l'unisentire (Einsfühlen) sono due atti diversi. Quando gioisco di uno stesso avvenimento o di uno stesso oggetto di cui un altro gode, questo mi può condurre al fatto che non più solo io e lui, ma noi godiamo, noi ci uni-sentiamo nella gioia dello stesso oggetto. Ma anche questo è un processo nel quale l'atto conoscitivo è indirizzato all'oggetto comune della gioia, ma non alla stessa gioia dell'altro. Quindi "non è mediante l'unisentire che facciamo esperienza vitale degli altri, ma mediante l'empatizzare", in quanto solo "mediante l'empatia l'unisentire e l'arricchimento della propria esperienza vitale diviene possibile" o può divenirlo. 

Nel caso dell'empatia, afferma Stein, abbiamo a che fare con una specie di atti di esperienza vitale sui generis: l'empatia, che abbiamo cercato di prendere in considerazione e di descrivere, è, in generale, "esperienza della coscienza estranea" . Dunque affronta la questione di come si sviluppa un tale empatizzare in "una coscienza estranea". Per questo premette alcune definizioni: secondo la teoria dell'imitazione (Nachahmungtheorie), per esempio, elaborata da Theodor Lipps, in me si realizza l'esperienza della vita psichica estranea, mediante la quale imito ("non esteriormente, ma “interiormente”) l'azione di un altro o la sua reazione ad una corrispondente sopravvenienza (nell'esempio portato, l’ "atto visto fare" da lui), partecipando così al vissuto interiore in tal modo espresso. Allora io giungo in questo dato modo, non al fenomeno del vissuto altrui, ma ad una mia propria esperienza, che l'azione vista fare dall'altro, risveglia in me.

Come l'imitazione, così anche l'associazione ad essa collegata, non conduce realmente a "cogliere la vita psichica altrui"; in questo caso si escludono le sensazioni che, in seguito ad una certa azione, io stesso ho od ho avuto intorno alle sensazioni dell'altro. Nel caso esemplare proposto da Edith: "Vedo qualcuno battere un piede rabbiosamente; mi viene in mente come io stessa ho battuto il piede con rabbia; nello stesso tempo mi si rappresenta la rabbia che mi aveva allora colto, per cui dico a me stessa: l'altro è ora arrabbiato come lo sono stata io" . In questo modo ho ricevuto in rappresentazione non il percepire dell'altro, ma la mia propria percezione richiamata alla memoria, e di qui proiettata nell'altro. 

Lo stesso vale per la inferenza per analogia (Analogieschluß), che coglie l'esperienza psichica dell'altro, semplicemente sapendo che di norma alcuni modi comportamentali esteriori determinano altrettante sensazioni interiori. Sebbene questo nel singolo caso possa colpire veramente, si deve però pensare secondo la studiosa che: "L'inferenza per analogia può prendere il posto dell'empatia che forse non ha luogo, e non comporta l'acquisizione di un'esperienza, ma realizza una conoscenza più o meno attendibile del vissuto estraneo".

L'empatia, così come Stein la intende, è certamente distinguibile rispetto ad atti conoscitivi simili, ma non sufficientemente identificabile in definizioni positive. In che modo avvenga l'empatia, si può infatti solo descrivere e le parole che la descrivono sono come delle finestre, attraverso cui siamo costretti a sbirciare la realtà significata. Possiamo intravedere l'empatia che avviene in un altro: un esempio evidente è rappresentato dalla stessa Edith Stein, che secondo Waltraud Herbstrith, carmelitana tedesca, era per natura un "genio dell'amicizia”, ma possiamo anche intravedere, nella propria coscienza, la capacità di potersi empatizzare in un dolore così come nella gioia. Forse è necessaria proprio l'empatia, per poter comprendere l'empatia. Posso effettivamente, come afferma la stessa Edith, "anche empatizzare delle empatie; cioè, tra gli atti di un altro, che colgo nell'empatizzare, possono esserci anche atti di empatia, nei quali uno coglie gli atti di un altro. Questo 'altro' può essere una terza persona ­ oppure io stesso" .

Si mostra, nell'analisi di Edith Stein, che l'oggetto conoscitivo dell'atto empatico, l’esperienza vitale degli altri, può avere contenuti molto diversi. In modo corrispondente alla composizione dell'essere umano come una unità di corpo, anima e spirito, si può trattare di una esperienza vitale dell'altro corporale, psichica o spirituale. Edith Stein dedica perciò due dei tre capitoli della sua opera a una riflessione molto estesa sulla costituzione ontologica dell'essere umano, che lei considera come "individuo psicofisico" (capitolo III) e successivamente come "persona spirituale" (capitolo IV), per giungere in questo modo a descrizioni ancora più dettagliate dell'atto empatico. Così ella parla ad esempio della "presentificazione empatizzante" in relazione all'esperienza vitale corporale dell'altro (un po' come il soffrire di dolori fisici), della "empatia sensoriale" oppure della "endosensazione" (nei suoi sentimenti e sensazioni psichiche, come pressapoco la gioia o la paura) di "comprensione post-vitale" o "coglimento empatizzante" del  mondo spirituale. 

Nel campo dell'esperienza vitale spirituale si apre al soggetto empatizzante "un nuovo regno di oggetti: il mondo dei valori": viene incontro cioè l'intero "mondo della storia e delle culture", dal quale un essere umano è plasmato e che egli stesso ­ in un certo modo continuamente  conforma, e che è appunto l'intero mondo dei valori, nei quali egli pensa, sente e opera. 

Viene incontro anche e soprattutto l'essere umano stesso nel suo valore peculiare. L'empatia conduce ad una sensazione di valore, nella quale ci è data la persona dell'altro e, scrive Stein: "Come negli atti propri originari dello spirito si costituisce la propria persona, così negli atti vissuti empaticamente si costituisce l'altra persona". È in definitiva lo stesso altro, che attraverso l'empatia viene percepito .

Stein non teme, in questo contesto ­ pur all'interno del linguaggio dell'analisi scientifica, ­ di parlare di questo atto dell'empatia come di un "atto di amore": nell'atto d'amore" si compie "un afferrare, ossia un intendere del valore della persona"; e conclude: "Noi non amiamo una persona perché fa il bene, il suo valore non consiste nel fatto che fa il bene (anche se il suo valore può rivelarsi in ciò), ma nel fatto che la persona stessa è pregevole e noi la amiamo per se stessa" .

L'empatia è possibile essenzialmente solo nel typos essere umano. Ma poiché questo typos è simile, almeno nel suo carattere corporale, ad altri esseri, posso empatizzare in un certo grado anche nel dolore di un animale. "Quanto più tuttavia ci allontaniamo dal typos essere umano, tanto minore diviene la quantità di possibilità di attuazione" dell'atto empatico. E poiché nel campo dello spirito "ogni singola persona è per se stessa un typos, potrò d'altra parte empatizzare in un'altra persona, solo nella misura in cui io stesso sono divenuta persona: "Solo chi si sperimenta come persona, come totalità che possiede un senso, può capire altre persone"; se no "ci rinchiudiamo nella prigione della nostra particolarità; gli altri ci diventano un enigma oppure, ancora peggio, li modelliamo a nostra immagine e distorciamo così la verità". 

Quanto più un essere umano ha trovato il proprio "se stesso", tanto più può diventare un "maestro di comprensione" o, come dice, Edith Stein: "un maestro dell'amore".

Mediante l'empatia percepisco l'altra persona nel suo valore peculiare e con il mondo di valori che essa si è fatto proprio. Ma questo ha anche come conseguenza una retroazione su di me: empatizzando nell'altro, si costituisce in me, soggetto empatizzante, un nuovo Io. "Ogni coglimento di altre persone diverse", secondo Edith, "può divenire fondamento di una comparazione di valore"; l'essere umano, che è stato percepito nell'empatia ­ nel suo valore e con i suoi valori ­ ci chiarisce "quello che noi siamo in più o in meno degli altri". Allora, "empatizzando, noi ci imbattiamo in campi di valori a noi preclusi, ci rendiamo coscienti di un proprio difetto o disvalore"; in questo modo, nella comprensione dell'altro, può giungere a sviluppo, "quanto in noi sonnecchia". ­ 

Giovanni della Croce (1542-1591), che due decenni dopo con le sue opere, tanto influsso avrà su Edith, ha forse voluto significare la stessa esperienza quando ha scritto: "L'amore rende simili l'amante e l'amato" ­ un "principio fundamental indiscutible" per il mistico spagnolo, determinando l'intero suo pensiero.

Ritroviamo qui del tutto la situazione personale dell'autrice al tempo in cui lavorava alla sua dissertazione quando, come esempio per questa esperienza vitale, nota sobriamente: "Così empatizzando, riesco a comprendere il tipo dell'homo religiosus, a me essenzialmente estraneo, e lo capisco, sebbene quanto di nuovo là mi si presenti, mi rimane sempre incompleto".

Vale la pena evidenziare che la filosofa era ancora lontana dalla fede quando termina il suo lavoro giovanile con una provocazione interessante che vale certamente la pena raccogliere. Essendo la persona anche spirito, a questo livello, dunque, con chi può empatizzare? Solo con altre persone?

Se dunque l'empatia ha una componente spirituale anche lontani dalla fede, perché non considerarla come stile di vita. E se fosse una pratica culturale? 




Bibliografia


Bettinelli C., Il pensiero di Edith Stein, Vita e pensiero, Milano, 1976.

Bella L. - Buttarelli A., Per amore di altro. L’empatia a partire da Edith Stein, Edizioni Cortina, Milano 2000, p.8-9.

Brezzi F. (a cura di) Amore ed empatia, Franco Angeli, Milano, 2003, p. 50.

Enciclopedia della Filosofia e delle scienze umane, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1996.

Herbstrith W., Edith Stein. Vita e testimonianze, Città Nuova, Roma, 1999.

Nussbaum M. , Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone, Il Mulino, Bologna, 2002.

Stein E. , Sul problema dell’empatia, a cura di Elio Costantini, Erika Schulze Costantini, ed. Studium, Roma, 2012.



10 ottobre 2022

Ha ancora senso parlare di vita discreta?

Ha ancora un senso nell'epoca in cui viviamo, fatta di iper connessione e di conseguenza una certa sovra esposizione mediatica, parlare di concetti come discrezione, farsi da parte, osservare senza essere osservati? Sembra un compito arduo. Ma basta leggere un saggio uscito nel 2015 dal titolo "L’arte di scomparire – Vivere con discrezione", pubblicato da il Saggiatore, per ricredersi. Adesso sembrerebbe quasi impossibile rispondere alla domanda, visto che sono passati già sette anni dall'uscita. A scriverlo è stato un filosofo francese, Pierre Zaoui.

Qui sotto riporto uno stralcio di un paragrafo del testo, che parla di «Felicità per sottrazione», utile per capire cosa intende l'autore per "arte di vivere con discrezione". Ancora più sotto la copertina del libro.


«A grandi linee, potremmo dire che oggi esistono

due modelli dominanti di felicità. Da una parte, il modello cumulativo,

ultramaggioritario nel sistema capitalista, che situa la felicità nell’avere,

essendo l’apparire stesso ridotto a una forma dell’avere (avere un capitale

sociale…). Essere felice significa avere: soldi, belle macchine, donne,

uomini, gloria, potere. Dall’altra, il modello filosofico, che va fortunatamente

ben oltre i soli filosofi di professione, e che situa la felicità nell’essere –

accumulare falsi beni non serve a nulla, è sufficiente imparare a essere: saggi,

prudenti, temperanti ecc.

L’esperienza della discrezione fa saltare in aria un’alternativa di questo

tipo. Da un lato, è ovviamente all’opposto di ogni accumulazione personale,

perché consiste nel distaccarsi da tutti i beni, esteriori e interiori, senza

negarli, ma collocandosi serenamente accanto a loro. Dall’altro, consiste

similmente nel distaccarsi dal proprio stesso essere, nell’ignorarsi, nello

scomparire a vantaggio delle cose esteriori. Eppure, non si può dire che in

un’esperienza del genere non ci sia più posto per la felicità; al contrario, anzi,

essere distaccati da tutto, sentire che non si ha più nulla da perdere, nulla da

guadagnare, nulla da provare, nulla da mostrare, è spesso proprio una vera

felicità. Dobbiamo dunque concepire un terzo tipo di felicità, che non

poggerebbe né sul possesso e la soddisfazione dei beni esteriori, né sul

possesso e la soddisfazione di sé, il godimento di diventare saggi o anche

semplicemente di diventare chi si è, ma sul distacco simultaneo da sé e dalle

cose.

Una felicità simile, potremmo chiamarla «felicità per sottrazione». Sottrarsi

ai vani giochi delle immagini di sé e delle ambizioni personali; sottrarsi alle

cose che si posseggono come a quelle che non si posseggono; sottrarsi alla

paura di perdere come alla paura di non aver più nulla da perdere – di essere

senza mancanza, senza vuoto, senza movimento, morti. Perché, certo, una

simile felicità istintivamente fa un po’ paura, sembra del tutto prossima al fantasma dell’abbandono o alla grande rinuncia nichilista. Ma è perfettamente

possibile e persino facile superare questa paura non appena ci rendiamo conto

che questa sottrazione non è che un momento, felice da vivere, ma anche felice

da veder passare, per reimbarcarsi nella vita con la sua ruota perpetua di

impegni e delusioni, di speranze e disillusioni. Vale a dire, dal momento in cui

ci ricordiamo ancora una volta del carattere intrinsecamente discontinuo della

discrezione. Non è la libertà a rendere felici, ma la continua liberazione, il

distacco, l’affrancamento, l’uscita dall’alienazione. Ma per distaccarsi o

liberarsi, bisogna pur essersi inizialmente attaccati o fatti prendere, e per

distaccarsi ancora bisogna ben accettare di attaccarsi ancora, senza fine. La

discrezione rende felici soltanto in modo ciclico, come sospensione, battuta di

arresto e di rilancio, vuoto fecondo, contrazione in attesa di una nuova

espansione, disimpegno in attesa di una nuova presa.

In questa prospettiva, certo, non è più possibile concepire una felicità

eterna, definitiva, sicura. E non si può neppure considerare la felicità come il

fine supremo dell’esistenza: non è che un momento di attesa tra due duri sforzi,

sempre nel mezzo della vita, mai alla morte. Ma è forse un male? Possiamo

scommettere piuttosto che le società che si consacrano anima e corpo alla

pursuit of happiness non solo non la raggiungono, ma sono società

profondamente malate. La salute, al contrario, è consacrarsi a scopi un po’ più

elevati e definiti della felicità: la libertà, la bellezza, la giustizia, la verità, la

creazione o l’eccellenza. Ora, in questo tipo di salute, è giocoforza constatare

che i soli momenti di felicità che possono ancora esserci accordati sono quelli

in cui sappiamo farci discreti, lasciare in pace gli altri e noi stessi e andare a

distenderci tranquilli nelle praterie domenicali della vita.

In questa prospettiva, l’altro nome che possiamo dare a questa «felicità per

distrazione» è disponibilità. Essere discreti non significa abbandonare il

mondo e gli altri per una vita interiore più profonda, ma significa al contrario

essere disponibili nei confronti di tutto ciò che di buono o di cattivo può

accadere intorno a noi. La disponibilità è fatta per abdicare di continuo a se

stessa, ma sempre momentaneamente».