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8 febbraio 2025

Guido Morselli e la gloria postuma



Cosa direbbe un artista se sapesse che il proprio successo è avvenuto soltanto dopo la  sua morte? E sarebbe un successo? Bisognerebbe anche stabilire cosa significhi avere successo, soprattutto nella nostra epoca dove, per farsi conoscere, è o sembra sufficiente un video dai cento clic. 
Tuttavia, si può dire che col tempo cambia la sensibilità del pubblico o degli addetti ai lavori oppure una scoperta casuale, come per Vivian Maier (link al precedente articolo: Vivian Maier e la gloria postuma) permette di conoscere nuove storie personali e artistiche degne di interesse. Per esempio, quante pittrici vediamo esposte oggi nei musei? Quante scrittrici del Novecento conosciamo solo adesso? Non è sempre e soltanto una questione di genere, beninteso, ma ragioni storiche, sociali e culturali hanno di fatto escluso le donne da diversi ambiti. È il talento, il valore oggettivo quello che conta, ma le opportunità, le condizioni di partenza, devono essere le stesse, a prescindere dal genere di appartenenza o dal colore della pelle. 

A parte questo, nella narrativa italiana c'è il peculiare caso di Guido Morselli di cui vale la pena parlare, diventato l'emblema dello scrittore rifiutato. Nato a Bologna nel 1912 in una famiglia della buona borghesia emiliana trasferitasi a Milano, visse nel varesotto, zona alla quale si sentì profondamente legato. Non accettò di seguire le orme paterne nel settore imprenditoriale e preferì la strada, non meno priva di insidie, della letteratura. Esclusi alcuni articoli e due saggi intitolati Proust o del sentimento* e Realismo e fantasia è stato pubblicato per intero quando ormai non poteva più vedere i risultati, e quali fossero, dello sforzo compiuto. Famosa è la lettera inviatagli da Italo Calvino spiegando le ragioni di un diniego editoriale e dove Morselli, peraltro, rispose**.

Per capire dunque la sua "gloria postuma", ci rifacciamo alle parole del critico Matteo Marchesini: «Comunque si vogliano giudicare le circostanze di questa sfortuna, non bisogna dimenticare che i suoi capolavori narrativi Morselli li scrisse lungo gli anni Sessanta: cioè proprio nel decennio in cui più forte, in Italia e altrove, infuriava la polemica contro il genere romanzo, dato autorevolmente per morto. E si trattava, nel caso, di romanzi la cui originalità era tanto maggiore quanto più tendeva a presentarsi sotto vesti sobrie: vesti che una società letteraria attratta dalle infrazioni clamorose degli “antiromanzi” poteva facilmente scambiare per tradizionali (si veda ad esempio il modo in cui Calvino rifiutò Il comunista, appunto perché troppo “romanzesco”)».***

Oltre quest'ultimo romanzo citato, altri da ricordare sono Roma senza papa, il suo primo, uscito nel 1974, ovvero appena un anno dopo la morte, e Contro passato prossimo, nel 1975. Tuttavia, il lavoro più importante è Dissipatio H.G, scritto tra il 1972 e il 1973 e dato alle stampe nel 1977, dove un giornalista, voce narrante, si ritrova solo nella città in cui vive, Crisopoli. Solo nel mondo dopo aver tentato invano di lasciarlo:

«Io non amo Crisopoli, anzi non la posso soffrire. In lei ho scorto il mio antitipo, l'affermazione trionfale di tutto ciò che io rifiuto, l'ho eletta a centro della mia detestazione del mondo; un caput-mundi al negativo. La mia «fuga saeculi» è stata, già allora, fuga da questa precisa localizzazione del "secolo". Pure, il fatto che ho sotto gli occhi mi riesce implausibile e tetro». 

H.G. sta per humani generis, ovvero: dissolvimento del genere umano. Una fuga in avanti, potremmo dire, e non all'indietro, come si potrebbe pensare. Un annientamento che corrispose a quello dello stesso Morselli che scelse di suicidarsi con un colpo di pistola e "la ragazza dall'occhio nero", così la definisce, è la rivoltella presente nel romanzo. Chiaro che questo romanzo contiene degli elementi autobiografici e che il narratore è una sorta di alter ego dell'autore. Sul suicidio di Morselli si è ipotizzato che dipendesse da quella sfortuna editoriale di cui si è detto sopra. Probabile, ma lungi dal fare considerazioni psicologiche, non può esserci un solo motivo a spiegare un gesto estremo, quanto piuttosto una serie di motivi. Per il resto, sarebbe ormai fare della dietrologia e tanta se n'è già fatta. Morselli con la sua opera aveva, per così dire, anticipato i tempi e in quei tempi non era stato capito.

Per capire ancor meglio la sua indole e il suo mondo interiore la lettura dei Diari, forse è scontato dirlo, rivelatrice. Scritti fra il 1943 e il 1973, e pubblicati, come le altre opere, da Adelphi, vi ha lasciato numerose riflessioni, alcune delle quali si ritrovano formulate nella finzione romanzesca. Pensieri colti, a volte complessi, su varie tematiche, dalla religione alla politica, dalla narratologia alla psicoanalisi, dall'amore al turismo, e a Dio, che ricorre diverse volte, tenendo conto che era ateo.  La speculazione filosofica era il suo terreno di gioco. Non abbandona le puntuali riflessioni nemmeno la notte delle "facili euforie", come le chiama, del 31 dicembre. Nega a se stesso l'ottimismo, per esplicita ammissione. Spesso utilizza il pronome 'noi'; sembra quasi stia scrivendo per un giornale. Raramente si sbilancia con le emozioni personali o nel descrivere i suoi giorni. Ma quando lo fa, elabora dei pensieri poetici intensi, tanto che di lui si potrebbe affermare tutto e il contrario di tutto: 

«Dolore non c’è che dolore. L’amore è soltanto finzione. La vita è una fiamma breve che guizza e si spegne in un immutabile algore».

Afferma Giuseppe Pontiggia nella prefazione, citando Goethe che consigliava di scrivere un diario non per vivere nel futuro, ma nel presente: «è curioso per uno come Morselli che quel rapporto col presente gli è sempre sfuggito. Non a caso i suoi romanzi spaziano tra il futuro dell'utopia e il dagherrotipo della storia».

In data 20 febbraio 1940 Morselli scrive: «I sentimenti quando sono manifestati perdono d'intensità. Questa è la ragione per cui il dolente, l'amante trovan sollievo nella confidenza. Questa è la ragione per cui taluno preferisce tenere i propri sentimenti per sé». Concetto ribadito all'interno di una parentesi - a conferire forza al pensiero e non a ridurlo - che troviamo anche e per l'appunto in Dissipatio H. G.:

«(Spiegarlo, dicevo. Ma a chi? A nessuno, ovviamente. Non mi convince la tesi che ogni esprimere anche il più privato supponga un comunicare. Quel «dovrei spiegare» non suppone niente e nessuno. Rivolto a me, è un pleonasmo funzionale. Mi tiene compagnia)». 

Le integrazioni della curatrice Valentina Fortichiari, studiosa di Guido Morselli, poste alla fine del libro in apposite note rendono la lettura più esaustiva, trattandosi di una selezione su un totale di diciassette quaderni tenuti dall'autore. 

Alcuni tratti - nel rapporto contradditorio con le donne, nel pensiero ossessivo dell'auto distruzione, nella solitudine, nel rifiuto- ci riportano a Cesare Pavese. Spiriti profondi e sensibili che la società con i suoi dettami precostituiti difficilmente comprende adesso come allora. Persone comuni che avevano una visione del mondo fuori dal comune.




*A proposito del saggio di Morselli su Proust:

https://diacritica.it/letture-critiche/morselli-e-proust-un-confronto-sul-sentimento.html?fbclid=IwY2xjawIV5thleHRuA2FlbQIxMQABHXN_aA_YdhltL69yB2N4k8HyJJx88mGZeFwPsiSyajjXPmU3-8j6Xln4sg_aem_g3EctvXlPW87jxxUngBhtg#post-8664-footnote-ref-165


**Lo scambio epistolare fra Calvino e Morselli si può leggere al seguente link: https://mvlmonteverdelegge.blogspot.com/2013/03/caro-morselli-caro-calvino-il-no-di.html 


***Per l'articolo completo di Matteo Marchesini si rimanda a:

https://claudiogiunta.it/2017/02/morselli-il-pelagiano/fbclid=IwY2xjawHjihFleHRuA2FlbQIxMQABHd0ukLacnP532sWbve3Yhm002KjF9f7LaDY53db7VnqgYK61PmR-YqPSGg_aem_vbe015qagIvXUFryDuRlnA&sfnsn=scwspwa 







10 dicembre 2024

Vivian Maier e la gloria postuma


             

(Autoritratto di Vivian Maier, 18 ottobre, 1953, New York /fonte foto vivianmaier.com)


Che un artista abbia successo in vita non è un fatto scontato. C'è chi la fama l'ha inseguita e avuta, c'è chi l'ha ottenuta e gliene importava poco di ottenerla, c'è chi l'ha avuta tardi o troppo tardi. Resta comunque fermo che il valore di un artista e soprattutto delle sue opere lo si misura col tempo. 

Un caso emblematico e curioso di successo tardivo è quello di Vivian Maier, ma vedremo altri esempi, come Goliarda Sapienza o Guido Morselli nella letteratura. 

Una donna dall'esistenza anonima che ha trovato una consacrazione artistica dopo la morte. In vita svolse un solo mestiere: la baby sitter presso famiglie benestanti americane. Vivian Maier nacque a New York nel 1926 e lavorò a lungo a Chicago. Aveva una grande passione: la fotografia. Ha fotografato di tutto, in particolare volti e oggetti ritratti nelle strade, cogliendone la vera essenza, tra luci e ombre- reali e metaforiche - compresa se stessa. È considerata da più parti una antesignana della street photography ed è richiestissima. Di lei infatti si parla molto, anche in Italia. Diverse le retrospettive. Fino al 2019 erano ben 15 le mostre dedicategli (fonte Artribune). L'ultima ancora in corso è alla Reggia di Monza inaugurata il 17 ottobre e si concluderà il 26 gennaio 2025, dedicata all'opera inedita (https://vivianmaierunseen.com/). 

Non mancano di certo i libri che la riguardano.  Chissà se  Vivian Maier gradirebbe queste attenzioni. È stata infatti una donna riservata. Talmente riservata da apparire misteriosa e questo ne ha alimentato il mito. Ma del mito, una volta che c'è, è difficile limitarne i confini. 

Per gli elementi biografici principali su Maier è sufficiente una rapida ricerca in rete. Tuttavia, per chi volesse approfondire, in libreria si può trovare una biografia appassionante e appassionata dal titolo Vita di Vivian Maier pubblicata in Italia da Utet, nel 2022, scritta da Ann Marks, nella traduzione di Chiara Baffa, contenente numerose immagini, altrettante fonti, anche medico-psichiatriche, interviste e testimonianze. 

Il volume è interessante perchè non solo si pone l'obiettivo logico di raccontare la vita di Vivian ma vuole cercare di capire il perchè di alcune sue scelte, contestualizzandole, prima fra tutte quella di aver nascosto praticamente a chiunque la propria vocazione. 

Vivian Maier è stata sicuramente tante cose diverse e contrarie, a partire dalle origini: francesi rurali e statunitensi urbane. Persino i riscontri dei bambini, ora adulti, che ha accudito sono contraddittori. Comunque, nonostante un'infanzia non facile - una madre instabile, un padre alcolista e violento e un fratello tossicodipendente e schizofrenico finito in riformatorio - ha fatto la vita che voleva, come evidenziato nel sottotitolo della biografia di Ann Marks: La storia sconosciuta di una donna libera. 

È riuscita a viaggiare in giro per il mondo, all'epoca non facile e non sostenibile per tutti, grazie ad alcune rendite, portando ovviamente con sè la macchina fotografica. Fu una autodidatta e si perfezionò con l'acquisto di uno strumento costoso e professionale, una Rolleiflex. In famiglia comunque la fotografia è stata presente e un'amica della madre era un'apprezzata fotografa, Jeanne Bertrand, che trasmise la passione a madre e figlia. 

Ma al di là di questo, come mai adesso si parla di Vivian Maier? La scoperta è dovuta a un caso fortuito. Tutto inizia nel 2007 quando un collezionista, di nome John Maloof, acquista alcuni scatoloni pieni di fotografie che sperava di usare per un libro che stava scrivendo. Da quel momento comincia un' indagine che lo porta a scoprire quel talento nascosto e una volta scoperto ne realizza un documentario, uscito nel 2014, Alla ricerca di Vivian Maier il titolo, ottenendo una candidatura agli Oscar. La gloria postuma era compiuta. 

È giunta alla morte anziana e sola, inerme e in ristrettezze economiche e ciò non ha giovato alla "causa" di John Maloof. Le illazioni si sono susseguite  ed è stato accusato di sensazionalismo in mancanza di una precisa volontà della donna riguardo al suo "testamento artistico", ovvero se desiderasse o no essere scoperta. 

Mentre dal lavoro meticoloso della biografa, durato sei anni, emerge altresì un interessante spaccato della condizione femminile e le differenze fra classi sociali nell'America degli anni che vanno dai Quaranta ai Sessanta del Novecento.

Per concludere, una bella citazione presente nel saggio, di Susan Sontag:

"Fotografare significa appropriarsi della cosa che si fotografa. Significa stabilire col mondo una relazione particolare".