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4 marzo 2025

Le prime rivendicazioni per un mondo più giusto: da Olympe de Gouges a Franz Bernheim




 

La “questione femminile” emerse periodicamente in Europa durante il XVII e il XVIII secolo, soprattutto sul tema dell’educazione, sebbene i diritti delle donne non erano stati al centro di un’intensa discussione negli anni antecedenti le Rivoluzioni americana e francese. Diversamente da quanto avvenne per i protestanti, gli ebrei o persino gli schiavi, la condizione delle donne, infatti, non era stata argomento di approfondimento nelle discussioni pubbliche. I diritti per le donne figuravano a un livello inferiore della scala della “concepibilità” rispetto a quelli di altri gruppi. Questo disinteresse può essere dovuto al fatto che le donne non erano nemmeno considerate una minoranza, meno che mai perseguitata. Nonostante queste distinzioni fra categorie, i tempi si fecero maturi per tentare di superarle. Infatti nel 1791, ad opera della francese Olympe de Gouges (1748-1793) pseudonimo di Marie Gouze e nell'anno successivo ad opera dell’inglese Mary Wollstonecraft (1759-1797) verranno pubblicati due titoli particolarmente significativi, Declaration des drois de la femme et de la citoyenne e A Vindication of the Rights of Woman. La portata rivoluzionaria di questi testi lo si può capire dal fatto che gli stessi illuministi avevano un’idea della donna come vittima di emozioni, passioni e superstizioni, il cui comportamento era dettato dall’istinto quanto quello dell’uomo lo era dalla ragione.

Tra il 1789 e il 1795, con gli eventi che si susseguirono in Francia, tutti i club femminili vennero chiusi e proibiti alla partecipazione con un voto della Convenzione. Le motivazioni, neanche troppo velate, furono che le donne potessero ottenere la cittadinanza e i relativi diritti politici, costituendo una minaccia troppo forte per chi in quegli anni stava lottando per arrivare al potere. Le donne semplicemente non costituivano una categoria politica distinta.

Il più deciso assertore maschile dei diritti politici delle donne in quel periodo fu Condorcet, che già nel 1781 pubblicò un pamphlet nel quale chiedeva l’abolizione della schiavitù in un elenco che comprendeva proposte di riforma riguardante i contadini, i protestanti e il sistema di giustizia penale, nonché l’istituzione del libero scambio e la vaccinazione contro il vaiolo, ma le donne non le menzionò. Condorcet sfidò i suoi lettori a riconoscere che le donne avevano sempre avuto diritti e che le abitudini sociali le avevano rese cieche davanti a questa verità fondamentale. La questione suscitò il suo interesse soltanto dopo che era passato un anno dall’inizio della Rivoluzione e nove anni dopo il suo pamphlet, sostenendo che «O nessun individuo della specie umana gode di veri e propri diritti, oppure tutti godono degli stessi; e colui che vota contro il diritto di un altro, qualunque sia la sua religione, il suo colore o sesso, ha pertanto abiurato i propri diritti». 

Oltre Manica, c'era Mary Wollstonecraft che si dedicava ai modi in cui la tradizione e l'educazione avevano arrestato lo sviluppo femminile, polemizzando, anche in forma anonima, con quanti - ideologhi, filosofi, in particolare Edmund Burke - sostenevano il contrario.  Nel suo A Vindication of the Rights of Woman, già citato, collegò l’emancipazione della donna all’esplosione di tutte le forme di gerarchia nella società. «Io credo davvero» – disse Mary – «che le donne debbano avere propri rappresentanti, invece di essere arbitrariamente governate senza avere nessuna azione diretta che permetta loro di partecipare alle delibere del governo».

Sia Olympe de Gouges che Mary Wollstonecraft ebbero, è quasi scontato dirlo, una cattiva sorte: la prima venne condannata alla ghigliottina, come essere impudente e innaturale. La seconda venne denigrata pubblicamente in quanto donna libera e fuori dagli schemi. Insieme a William Godwin ebbe una figlia, che divenne nota come Mary Shelley (1797-1851) l'autrice del capolavoro Frankenstein.

A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, soprattutto nel mondo anglosassone, e in particolare per opera di John Stuart Mill, riprende vigore la battaglia per l’eguaglianza uomo/donna, non solo intesa come eguaglianza giuridica ma anche come diritto all’indipendenza economica e culturale. Il pensiero liberale richiede tutele specifiche per la libertà degli individui, minacciata dal potere dello Stato, e dai poteri privati della famiglia, della comunità, del datore di lavoro.

Per contro, la nascente dottrina marxista critica un'impostazione ritenuta individualista e borghese e contribuisce alla costruzione dei diritti sociali, che saranno affermati per la prima volta nella Costituzione di Weimar del 1919, anche come sviluppo delle misure di assistenza pubblica già previste nella Germania di Bismarck a tutela dei lavoratori. L’avvento della società industriale aveva portato, infatti, grandi sconvolgimenti: la questione sociale suscitava notevoli preoccupazioni e aveva favorito la formazione di diversi movimenti associativi per la difesa delle condizioni di vita dei gruppi sociali oppressi o emarginati. Nello stesso periodo erano sorti, ancora una volta soprattutto nel mondo anglosassone, associazioni e movimenti femminili, alcuni dei quali si battevano per il riconoscimento del diritto di voto alle donne. Ma le dittature che si instaurano in Europa dopo la Prima Guerra mondiale travolgeranno la cultura dei diritti. 

All’indomani del primo dopoguerra vennero fatti due tentativi, entrambi falliti, di proclamare a livello internazionale il principio di uguaglianza tra individui. Il primo avvenne nel 1919. In occasione della elaborazione del Patto della Società delle Nazioni – e cioè del trattato internazionale che doveva porre le basi di una nuova comunità internazionale, dopo i disastri della prima guerra mondiale – la delegazione giapponese propose formalmente di inserire nel Patto una norma che prevedesse pari trattamento senza distinzioni di razza o nazionalità per tutti gli stranieri che avessero la cittadinanza di uno Stato membro della Società.

Quindi, una norma internazionale, inserita in un trattato fondamentale, avrebbe posto tutti gli stranieri su un piano di eguaglianza. Non si trattava, beninteso, di proclamare l’eguaglianza tra i cittadini di ciascuno Stato contraente, o tra questi e tutti gli stranieri; si trattava solo di non discriminare i cittadini degli altri Stati membri della Società, e solo essi, in base alla loro razza o nazionalità. Si era quindi lontani dalla consacrazione, a livello universale, del principio di eguaglianza, in quanto il passo avanti era solo limitato all’abolizione delle discriminazioni per razza o nazionalità. Malgrado la portata, come abbiamo visto ristretta, della proposta, essa venne rifiutata soprattutto per l’opposizione di Gran Bretagna, Australia e Stati Uniti, vale dire proprio quelle potenze occidentali nel cui seno erano stati concepiti i diritti umani. Significa che la comunità internazionale non era ancora matura per recepire quei valori .

Il secondo tentativo di proclamare a livello internazionale il rifiuto della discriminazione razziale avvenne nel 1933. Questa volta, però, lo scontro fu tra Stati occidentali e la questione non riguardò il trattamento degli stranieri, ma il rispetto dei valori della persona umana in quanto tale, in particolare la protezione delle minoranze. Infatti, i trattati stipulati dopo la Prima guerra mondiale proteggevano le minoranze linguistiche, razziali e religiose di alcuni Paesi dell’Europa centrale e orientale essenzialmente per esigenze politiche. Ma un episodio significativo segnò la crisi del tentativo di superare la dimensione politica e arrivare ad un’ottica ispirata ai diritti umani .

Nel 1933, come si diceva, un cittadino tedesco di origine ebrea si lamentò davanti al Consiglio della Società delle Nazioni delle violazioni – perpetrate dalla Germania – del trattato tedesco-polacco del 1922, nella parte in cui proteggeva le minoranze dell’Alta Slesia (allora appartenente alla Germania). Franz Bernheim, questo il nome, visse tra il 1931 e il 1933 in Alta Slesia, era stato licenziato da una società tedesca, come tutti gli impiegati ebrei. Nella sua petizione ricordò le varie leggi e ordinanze contro gli ebrei, emanate nell’aprile del 1933 dal governo tedesco, insistendo sul fatto che esse introducevano in tutta la Germania una grave discriminazione razziale. Bernheim venne subito contestato da parte del delegato tedesco  di non avere alcun legame con l’Alta Slesia, né di origine né di famiglia. Fu invece il rappresentante polacco che in un vigoroso intervento respinse le obiezioni tedesche osservando che, almeno dal punto di vista formale, il Consiglio non poteva che occuparsi della sorte delle minoranze ebraiche in Alta Slesia e che ci dev’essere un minimo di diritti che deve essere garantito a ogni essere umano, indipendentemente dalla razza, dalla religione o dalla lingua materna. Parole che all’epoca destarono scalpore .

La questione delle discriminazioni contro le minoranze non si fermò lì in quanto, qualche mese dopo, la Germania chiese all’assemblea della società delle Nazioni di sottoporre a una commissione dell’Assemblea stessa il rapporto annuale della Società nella parte relativa alle minoranze. La questione venne quindi ripresa in seno alla VI Commissione dell’Assemblea. In quella sede si accese un vivace dibattito su una questione di principio: se in ogni Stato civile moderno tutti i cittadini dovessero godere di un eguale trattamento, sia in diritto che in fatto. La maggior parte degli stati rispose affermativamente; solo la delegazione tedesca affermò, invece, che uno Stato sovrano aveva il diritto di considerare un simile problema come una questione interna. 

Tra gli Stati più avanzati, una posizione di punta fu presa dalla Francia che fece due proposte: riaffermare il principio che tutti gli Stati non legati da trattati sulle minoranze dovevano considerare le loro minoranze “almeno con lo stesso grado di giustizia e di tolleranza” richiesto da quei trattati. Inoltre la Francia proponeva di affermare che, se uno Stato aveva stipulato un trattato sulle minoranze, le clausole di quel trattato non andavano interpretate nel senso di escludere certe categorie di cittadini dai benefici delle clausole stesse; in altri termini, le minoranze all’interno di uno Stato erano protette anche se non si trovavano nei territori designati in termini esclusivi dai trattati.

Il riferimento all’affare Bernheim era evidente: secondo la proposta francese, la Germania doveva trattare senza discriminazione gli ebrei tedeschi, anche al di fuori dell’alta Slesia, e cioè in tutta la Germania. Non deve dunque stupire che il delegato tedesco sia insorto contro quella proposta, affermando che essa “aveva direttamente di mira la questione ebraica in Germania”. Anche se migliorata dal delegato greco Politis, la proposta francese fu dunque respinta dalla Germania, nella parte di cui stiamo parlando. In virtù dell’art. 5 del Patto della Società (secondo cui le delibere dell’Assemblea potevano essere adottate solo “con l’approvazione di tutti i membri”), la proposta francese fu bocciata .

Questo episodio dimostra che ancora nel 1933, la sovranità nazionale si opponeva al rispetto pieno dei diritti umani per tutti. Che il principio di uguaglianza – la base stessa di tutti i diritti e le libertà fondamentali – non era ancora considerato come uno dei capisaldi imprescindibili di ogni convivenza umana. Non è un caso che il voto contrario della Germania alla proposta francese sia stato dato l’11 ottobre 1933, e solo tre giorni dopo, il 14 ottobre, Hitler abbia radiotrasmesso il famoso discorso con cui annunciava il ritiro della Germania dalla Società con la motivazione che gli altri Stati non erano disposti ad accordare “una reale eguaglianza di diritti alla Germania” ma la lasciavano in una posizione “non dignitosa”. Hitler protestava per una discriminazione in campo internazionale certamente meno grave di quella che lui stesso operava, in Germania, contro certe categorie di cittadini tedeschi .

L’isolamento della Germania sulla questione della minoranza ebraica non fu certo la causa del suo ritiro dalla Società, tanto più che proprio le norme della Società le avevano consentito di bloccare una risoluzione che di fatto la condannava. Ma è significativa la coincidenza tra la rottura della Germania con i postulati essenziali del vivere civile – anche se si trattava ancora di norme etiche – e la sua uscita da quell’organismo che aveva voluto raggruppare tutti gli Stati “civili”.

Sinistra coincidenza, dunque, che mette in evidenza il nesso tra l’imbarbarimento nazista e il diniego totale dei diritti umani .

Il rispetto della dignità umana trovò, dunque, la prima pietra di inciampo nella ferma presa di posizione della Germania, volta a sostenere che la sovranità nazionale non tollerava alcuna ingerenza internazionale negli affari interni. La rottura – su questo e su altri punti, non meno significativi – tra la Germania ed il resto della comunità internazionale porterà poi allo scoppio della Seconda Guerra mondiale.


Bibliografia

A. Cassese, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Laterza, Bari, 1994.

M. Flores, Storia dei diritti umani, Il Mulino, Bologna, 2008.

L. Hunt, La forza dell’empatia. Una storia dei diritti dell’uomo, Laterza, Bari, 2010.

G. Oestreich, Storia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, Laterza, Bari, 2001.

M. Wollstonecraft, A Vindication of the Rights of Woman (titolo in italiano: Sui diritti delle donne).

Per un approfondimento sulla petizione di Franz Bernheim: https://www.southcoastview.co.uk/news/the-bernheim-petition/


                                  

                                       


Ultima pagina della petizione di Bernheim (foto tratta dal sito https://www.southcoastview.co.uk/)




Frontespizio originale di A Vindication of the right of woman

23 novembre 2024

L'empatia e la lettura di romanzi





Si riprende oggi il filo del discorso sull'empatia. Un concetto che ha avuto i suoi percorsi anche tormentati. E lo si è visto in un articolo precedente a proposito della filosofa e mistica tedesca Edith Stein

Può la lettura di romanzi influire o rafforzare  un sentimento o una condizione dell'animo umano, come l'empatia? 

Attingendo alla storia della cultura ci prova nel 2010 la studiosa americana Lynn Hunt, con il saggio intitolato "La forza dell'empatia", nella traduzione di Paola Marangon, edito da Laterza. 

Partendo dal tema dei diritti umani (il sotto titolo infatti è "Una storia dei diritti dell'uomo") con sullo sfondo lenti ma radicali cambiamenti intervenuti a livello di senso comune, inteso come collettore di nuovi modi di sentire individuali, Lynn Hunt si domanda se sia del tutto casuale la pubblicazione dei tre più grandi romanzi "psicologici" del Settecento - Pamela (1740) e Clarissa (1747-1748) di Richardson e Giulia (1761) di Rousseau - nel periodo immediatamente precedente la comparsa del concetto di "diritti dell'uomo". 

L'empatia non fu "inventata" nel XVIII secolo. La capacità di provare empatia è universale perché è radicata nella biologia; dipende dalla capacità, che ha basi biologiche, di comprendere la soggettività di altre persone e di immaginare che le loro esperienze intime siano simili alle nostre. I bambini che soffrono di autismo, per esempio, hanno gravi difficoltà a decodificare le espressioni del viso come manifestazioni di sentimenti, e in generale hanno problemi ad attribuire uno stato soggettivo alle altre persone. L'autismo, in breve, è caratterizzato dall'incapacità di immedesimarsi negli altri .

Di norma, l'empatia si apprende in giovane età. Anche se la biologia assicura una predisposizione essenziale, ogni cultura conferisce un'impronta specifica alla sua espressione. L'empatia si sviluppa soltanto attraverso l'interazione sociale; pertanto, le forme che tale interazione assume esercitano un'influenza significativa. Nel XVIII secolo i lettori di romanzi impararono ad ampliare la loro visione dell'empatia. Leggendo, l'immedesimazione nei personaggi oltrepassava i limiti sociali tradizionali tra nobili e comuni cittadini, tra padroni e servi, tra uomini e donne, forse persino tra adulti e bambini. Di conseguenza, finivano per vedere gli altri - persone che non conoscevano personalmente - come se stessi, come se provassero lo stesso tipo di emozioni interiori. Senza questo processo di apprendimento, l'«uguaglianza» non avrebbe potuto assumere un significato profondo, in particolare non avrebbe avuto alcuna conseguenza politica . Credere nell'uguaglianza delle anime in cielo non equivale a riconoscere pari diritti sulla terra. Prima del XVIII secolo i cristiani accettavano facilmente il primo postulato senza ammettere il secondo.

La capacità di identificarsi al di là delle divisioni sociali può essere stata acquisita in vari modi, non si può certo affermare che la lettura dei romanzi sia l'unico. Eppure la lettura dei romanzi sembra particolarmente attinente, in parte perché l'apogeo di un genere letterario specifico - il romanzo epistolare - coincide cronologicamente con la nascita dei diritti umani.

Nel romanzo epistolare non esiste un punto di vista esterno dell’autore, come accadrà invece, nel romanzo realista del XIX secolo, semplicemente perché tale punto di vista emerge dalle idee espresse nei carteggi dei personaggi. I “curatori” delle lettere, come si facevano chiamare Richardson e Rousseau, creavano un forte senso della realtà proprio perché la paternità dell’opera si nascondeva nello scambio di lettere. Ciò permise di accentuare la sensazione di immedesimazione, come se il personaggio fosse reale, non immaginario.

«Grazie alla sua stessa forma, il romanzo epistolare era in grado di dimostrare che l'individualità dipendeva dalle caratteristiche dell'«interiorità» (avere una vita interiore), perché i personaggi nelle lettere esprimono i loro sentimenti intimi. Il romanzo epistolare dimostrò inoltre che ogni “io” era dotato di tale interiorità (molti personaggi scrivono), e di conseguenza tutti gli “io” in un certo senso erano uguali, perché tutti possedevano allo stesso modo un'interiorità. Lo scambio di lettere trasforma la giovane serva Pamela, per esempio, in un modello di fiera autonomia e individualità, più che in uno stereotipo dell'oppresso. Come Pamela, Clarissa e Giulia finiscono per simboleggiare l'individualità stessa. I lettori diventano più consapevoli di avere la capacità di interiorizzare le loro esperienze, così come tutti gli altri individui».

Ovviamente non tutti provavano gli stessi sentimenti leggendo questo tipo di romanzi. C’è chi li definiva “tediosi” o “sentimentalisti”, per non parlare del clero cattolico che ne denunciava l’oscenità e la degradazione morale. Richardson e Rousseau rivendicarono il ruolo di “curatori” e non di “autori” per poter arginare il discredito associato ai loro romanzi.

Nonostante le preoccupazioni dei due autori sulla loro reputazione, alcuni critici cominciarono a capire le dinamiche create dai romanzi, richiamando l’attenzione sull’empatia. In questa nuova prospettiva, i romanzi agivano sui lettori in modo da renderli più sensibili agli altri, invece che isolarsi, e quindi la loro moralità veniva rafforzata. Uno dei più importanti difensori del romanzo fu Diderot, anch’egli romanziere. Diderot non usa le parole “empatia” o “identificazione” ma ne dà una spiegazione persuasiva dicendo che ci si immedesima nei personaggi, si provano gli stessi sentimenti dei protagonisti; in pratica ci si immedesima in qualcuno diverso da sé. Prende, quindi, consapevolezza del fatto che anche gli altri hanno un “io”. Ed è questo sentimento interiore importante per capire i diritti umani. Inoltre, Diderot comprende che l’effetto del romanzo è inconscio: “ci si sente spingere verso il bene con una impetuosità che non si conosceva. Si prova, di fronte all’ingiustizia, una rivolta che non saremmo in grado di spiegarci”. Questo è molto importante perché significa che il romanzo ha esercitato il suo effetto attraverso il processo di coinvolgimento della narrazione, non per mezzo di un moralismo esplicito.

Anche Thomas Jefferson era dello stesso avviso, in quanto sosteneva che leggendo Shakespeare, Sterne, Home si provava il desiderio di compiere atti caritatevoli, di atti di emulazione morale.

«Il magico incantesimo operato dal romanzo rivelava così di avere effetti di vasta portata. Anche se non lo affermarono espressamente, i sostenitori del romanzo compresero che scrittori come Richardson e Rousseau di fatto attiravano i loro lettori nella vita quotidiana come una sorta di esperienza religiosa sostitutiva. I lettori impararono a riconoscere l'intensità emotiva dell'ordinario e la capacità di persone simili a loro di creare autonomamente un mondo morale. I diritti umani nacquero dal terreno seminato con questi sentimenti. I diritti umani riuscirono a fiorire soltanto quando gli individui impararono a pensare agli altri come a loro pari, fondamentalmente uguali a loro. Impararono questa uguaglianza, almeno in parte, attraverso l'esperienza dell'identificazione con personaggi comuni che sembravano drammaticamente presenti e familiari, anche se in definitiva erano immaginari».

Nei tre romanzi epistolari esaminati da Hunt, per spiegare la sua teoria, le protagoniste sono tutte di sesso femminile e gli autori sono di sesso maschile. Le eroine erano più affascinanti perché la loro autonomia non poteva esplicarsi appieno in quel periodo storico. Le donne, come sappiamo, godevano di scarsi diritti giuridici separati dai padri o dai mariti. I lettori trovavano la ricerca di indipendenza da parte dell’eroina particolarmente struggente, perché capivano le restrizioni che tale tipo di donna inevitabilmente subiva. Nelle tre storie vediamo che solo in “Pamela” c’è un lieto fine perché la protagonista si sposerà con Mr B accettando l’implicita limitazione della propria libertà personale mentre Clarissa muore piuttosto che sposare l’uomo che l’ha violentata e Giulia sembra accettare la volontà del padre e rinuncia all’uomo che ama ma morirà nella scena finale.

Alcuni critici moderni hanno rilevato in queste storie elementi di masochismo o di martirio ma la forza dell’identificazione prendeva il sopravvento sugli elementi di critica in quanto i lettori e le lettrici non solo volevano salvare le eroine ma volevano essere come loro, persino come Clarissa e Giulia che alla fine muoiono. In ciascun romanzo tutto ruota intorno alla personalità della protagonista. Le azioni dei personaggi maschili servivano solo a dare risalto a questa volontà femminile. Immedesimandosi nelle protagoniste, i lettori imparavano che tutte le persone, e quindi anche le donne, aspiravano a una maggiore autonomia, e con l’immaginazione sperimentavano la fatica psicologica di questa “impresa” .

Nei romanzi del XVIII secolo si rifletteva un’inquietudine culturale più profonda legata all’autonomia. I filosofi illuministi erano convinti di aver compiuto un importante passo avanti in questo senso. Quando parlavano di libertà, intendevano autonomia individuale, che si trattasse della libertà di esprimere un’opinione o di praticare la religione che si voleva, o dell’indipendenza insegnata ai ragazzi se si seguivano i precetti indicati da Rousseau nella sua guida pedagogica, Emilio nel 1762. La narrativa illuminista sulla conquista dell’autonomia raggiunse il culmine nel 1784 con il saggio di Kant Che cos’è l’illuminismo? Per il filosofo tedesco l’illuminismo era l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Quindi, illuminismo per Kant significava autonomia intellettuale, capacità di pensare con la propria testa.

L’accento posto dall’illuminismo sull’autonomia individuale nacque dalla rivoluzione del pensiero politico del XVII secolo, avviata da Grozio e John Locke. I due filosofi avevano sostenuto che l’unico fondamento possibile dell’autorità politica legittima era l’uomo autonomo che stringe un patto sociale con altri suoi simili. Se l’autorità giustificata dal diritto divino, dalla Scrittura e dalla storia doveva essere sostituita da un contratto tra uomini autonomi, era necessario insegnare ai ragazzi a pensare con la propria testa. La pedagogia, sulla quale Locke e Rousseau lasciarono un’impronta profonda, spostò quindi l’accento dall’ubbidienza imposta attraverso le punizioni a un’attenta coltivazione della ragione come strumento preciso d’indipendenza .

Quindi è chiaro che per pensare e decidere da sé erano necessari cambiamenti psicologici oltre che politici e filosofici. Infatti Rousseau nel suo Emilio invitava le madri a costruire pareti psicologiche tra i loro figli e le pressioni sociali e politiche esterne.

I riformatori che si ispiravano all’Illuminismo volevano andare anche oltre la protezione del corpo o la recinzione dell’anima raccomandata da Rousseau. Essi miravano ad ampliare l’ambito di decisione individuale. Le leggi rivoluzionarie francesi sulla famiglia dimostrano quanto fosse reale la preoccupazione destata dai limiti imposti dall’indipendenza. Ad esempio, nel 1790 si abolì la primogenitura, che conferiva diritti ereditari speciali al primogenito maschio o ancora nello stesso anno l’Assemblea decretò che tutti i discendenti, maschi e femmine, avevano pari diritto all’eredità; nell’anno successivo i deputati ridussero la maggiore età da venticinque a ventun anni, dichiararono che gli adulti non potevano più essere soggetti all’autorità paterna e istituirono il divorzio per la prima volta nella storia francese, rendendolo accessibile sia agli uomini che alle donne .

Anche la Gran Bretagna e le sue colonie nordamericane si muovevano sulla stessa linea e il potere patriarcale vecchio stile subì un declino. Dal Robison Crusoe di Daniel Defoe (1719) all’Autobiografia di Benjamin Franklin (scritta tra il 1771 e il 1788), gli autori inglesi e americani esaltarono l’indipendenza come virtù cardinale. Il romanzo di Defoe sul marinaio naufragato fornì un vademecum su come un uomo poteva imparare a provvedere a se stesso .

Questi cambiamenti ci furono anche nella vita reale. I giovani pretendevano sempre di più di compiere le proprie scelte matrimoniali, anche se le famiglie esercitavano ancora grandi pressioni su di loro, come si poteva notare in qualsiasi romanzo la cui trama riguardasse proprio quest’aspetto (per esempio il già citato Clarissa). Cambiarono anche i metodi adottati per allevare i figli. Gli inglesi, ad esempio, smisero di fasciare i neonati prima dei francesi ma continuarono a picchiare i ragazzi nelle scuole più a lungo. Negli anni Cinquanta del Settecento le famiglie aristocratiche inglesi avevano smesso di utilizzare le redinelle di sicurezza per guidare i primi passi dei figli, li svezzavano prima e, poiché non erano più fasciati, i bambini imparavano prima ad usare il gabinetto, tutti segni della maggiore importanza data all’indipendenza. 



Lynn Hunt, foto tratta dal sito dell'Università della California, Los Angeles (Ucla)