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sabato 7 giugno 2025

Flannery O'Connor e l'arte di scrivere - Citazioni

Brano tratto da Un ragionevole uso dell'irragionevole. Saggi sulla scrittura e lettere sulla creatività, Minimum Fax, 2019, cap. "Natura e scopo della narrativa". 


San Tommaso chiamava l’arte «ragione in atto». È una definizione molto fredda e molto bella, e se oggigiorno è impopolare, è perché la ragione ha perso terreno fra noi. Come la grazia e la natura sono state separate, così è stato per l’immaginazione e la ragione, e questo significa sempre la fine dell’arte. L’artista usa la propria ragione per trovarne una corrispondente in tutto quel che vede. Per lui, essere ragionevole è trovare, nell’oggetto, nella situazione, nella sequenza, lo spirito che li rende tali. Non è cosa facile, né semplice. È un’invasione dell’eterno, e viene fatta solo con la violenza di un rispetto assoluto per la verità. Ne deriva che non esiste una tecnica da scoprire e applicare che renda possibile scrivere. Se frequentate una scuola dove si tengono corsi di scrittura, dovrebbero insegnarvi non a scrivere, ma piuttosto i limiti e le potenzialità delle parole, e il rispetto loro dovuto. 



 
    Flannery O'Connor e i suoi amati pennuti 



 


sabato 19 aprile 2025

L'inno alla vita di Anna Maria Ortese - Citazioni

Brano tratto da Corpo Celeste di Anna Maria Ortese, Adelphi, 1997, p. 53

Sono lieta, in mezzo alle mie tristezze mediterranee, di essere qui. E dirvi com'è bello pensare strutture di luce, e gettare come reti aeree sulla terra, perché essa non sia più quel luogo buio e perduto che a molti appare, o quel luogo di schiavi che a molti si dimostra - se vengono a occupare i linguaggi, il respiro, la dignità delle persone. A dirvi come sia buona la Terra, e il primo dei valori, e da difendere in ogni momento. 



   Anna Maria Ortese





mercoledì 26 marzo 2025

Dal passato al presente - Citazioni

Scriveva Emil Cioran, in una lettera all'amico Arşavir (tratto da L'orgoglio del fallimento, Lettere ad Arşavir e Jeni Acterian, a cura di Antonio Di Gennaro, Mimesis, collana Volti, 2021, traduzione italiana di Magda Arhip e Laureto Rodoni):

Dieppe, 28 agosto 1972

Mio caro Arşavir,

condivido le tue opinioni disilluse sulle vacanze, su questa nuova religione, perché proprio di questo si tratta! – la peggiore. Negli ultimi anni non si può più viaggiare d’estate. È impossibile trovare una stanza da qualche parte. Milioni di persone in movimento. Una cosa del genere non accadeva dai tempi delle invasioni barbariche. Prima potevo visitare l’Inghilterra, la Spagna, l’Italia cambiando posto ogni giorno; ora non posso. Così ho concluso la mia carriera da turista. Sono qui, in riva al mare, in un luogo dove c’è poca gente, poiché fa freddo e la spiaggia è priva di sabbia… Meglio così! Vivere senza telefono, senza visite, senza connazionali, senza appuntamenti di qualsiasi tipo: è questo il paradiso. Non puoi immaginare il tempo che spreco a Parigi in chiacchiere. Gente di tutto il mondo viene lì, e io non vado da nessuna parte. Le ore che ho passato negli ultimi anni in conversazioni insipide, avrei potuto usarle per imparare il cinese o il sanscrito.


    Emil Cioran (fonte, Bridgeman images). 

giovedì 19 dicembre 2024

Citazioni


Julio Cortázar (foto gettyimagines) 


Siamo sull'orlo della catastrofe, delle bombe atomiche, e il libro mi sembra solo una delle armi (estetica o politica o entrambe, ciascuno deve poter fare quel che vuole, basta che lo faccia bene) che ancora può difenderci dall'autogenocidio universale. Mi fa ridere che un romanziere si faccia venire l'ulcera perché il suo libro non è abbastanza famoso e si metta a organizzare «eventi» di autopromozione per non farsi dimenticare da editori e critici. Di fronte a quel che ci fanno vedere le prime pagine dei giornali ogni giorno, non sembrano ridicoli questi spasmodici attacchi d'ansia? Uno scrittore vero è quello che tende l'arco al massimo mentre scrive, e poi lo appende a un chiodo e se ne va a bere vino con gli amici. La freccia sarà già partita e raggiungerà o non raggiungerà il bersaglio, solo gli imbecilli pretenderanno di modificarne la traiettoria, o correrle dietro per aiutarla con opportune spinte mirate all'immortalità e alle edizioni internazionali. 

Julio Cortázar, 1969



lunedì 10 ottobre 2022

Ha ancora senso parlare di vita discreta?

Ha ancora un senso nell'epoca in cui viviamo, fatta di iper connessione e di conseguenza una certa sovra esposizione mediatica, parlare di concetti come discrezione, farsi da parte, osservare senza essere osservati? Sembra un compito arduo. Ma basta leggere un saggio uscito nel 2015 dal titolo "L’arte di scomparire – Vivere con discrezione", pubblicato da il Saggiatore, per ricredersi. Adesso sembrerebbe quasi impossibile rispondere alla domanda, visto che sono passati già sette anni dall'uscita. A scriverlo è stato un filosofo francese, Pierre Zaoui.

Qui sotto riporto uno stralcio di un paragrafo del testo, che parla di «Felicità per sottrazione», utile per capire cosa intende l'autore per "arte di vivere con discrezione". Ancora più sotto la copertina del libro.


«A grandi linee, potremmo dire che oggi esistono

due modelli dominanti di felicità. Da una parte, il modello cumulativo,

ultramaggioritario nel sistema capitalista, che situa la felicità nell’avere,

essendo l’apparire stesso ridotto a una forma dell’avere (avere un capitale

sociale…). Essere felice significa avere: soldi, belle macchine, donne,

uomini, gloria, potere. Dall’altra, il modello filosofico, che va fortunatamente

ben oltre i soli filosofi di professione, e che situa la felicità nell’essere –

accumulare falsi beni non serve a nulla, è sufficiente imparare a essere: saggi,

prudenti, temperanti ecc.

L’esperienza della discrezione fa saltare in aria un’alternativa di questo

tipo. Da un lato, è ovviamente all’opposto di ogni accumulazione personale,

perché consiste nel distaccarsi da tutti i beni, esteriori e interiori, senza

negarli, ma collocandosi serenamente accanto a loro. Dall’altro, consiste

similmente nel distaccarsi dal proprio stesso essere, nell’ignorarsi, nello

scomparire a vantaggio delle cose esteriori. Eppure, non si può dire che in

un’esperienza del genere non ci sia più posto per la felicità; al contrario, anzi,

essere distaccati da tutto, sentire che non si ha più nulla da perdere, nulla da

guadagnare, nulla da provare, nulla da mostrare, è spesso proprio una vera

felicità. Dobbiamo dunque concepire un terzo tipo di felicità, che non

poggerebbe né sul possesso e la soddisfazione dei beni esteriori, né sul

possesso e la soddisfazione di sé, il godimento di diventare saggi o anche

semplicemente di diventare chi si è, ma sul distacco simultaneo da sé e dalle

cose.

Una felicità simile, potremmo chiamarla «felicità per sottrazione». Sottrarsi

ai vani giochi delle immagini di sé e delle ambizioni personali; sottrarsi alle

cose che si posseggono come a quelle che non si posseggono; sottrarsi alla

paura di perdere come alla paura di non aver più nulla da perdere – di essere

senza mancanza, senza vuoto, senza movimento, morti. Perché, certo, una

simile felicità istintivamente fa un po’ paura, sembra del tutto prossima al fantasma dell’abbandono o alla grande rinuncia nichilista. Ma è perfettamente

possibile e persino facile superare questa paura non appena ci rendiamo conto

che questa sottrazione non è che un momento, felice da vivere, ma anche felice

da veder passare, per reimbarcarsi nella vita con la sua ruota perpetua di

impegni e delusioni, di speranze e disillusioni. Vale a dire, dal momento in cui

ci ricordiamo ancora una volta del carattere intrinsecamente discontinuo della

discrezione. Non è la libertà a rendere felici, ma la continua liberazione, il

distacco, l’affrancamento, l’uscita dall’alienazione. Ma per distaccarsi o

liberarsi, bisogna pur essersi inizialmente attaccati o fatti prendere, e per

distaccarsi ancora bisogna ben accettare di attaccarsi ancora, senza fine. La

discrezione rende felici soltanto in modo ciclico, come sospensione, battuta di

arresto e di rilancio, vuoto fecondo, contrazione in attesa di una nuova

espansione, disimpegno in attesa di una nuova presa.

In questa prospettiva, certo, non è più possibile concepire una felicità

eterna, definitiva, sicura. E non si può neppure considerare la felicità come il

fine supremo dell’esistenza: non è che un momento di attesa tra due duri sforzi,

sempre nel mezzo della vita, mai alla morte. Ma è forse un male? Possiamo

scommettere piuttosto che le società che si consacrano anima e corpo alla

pursuit of happiness non solo non la raggiungono, ma sono società

profondamente malate. La salute, al contrario, è consacrarsi a scopi un po’ più

elevati e definiti della felicità: la libertà, la bellezza, la giustizia, la verità, la

creazione o l’eccellenza. Ora, in questo tipo di salute, è giocoforza constatare

che i soli momenti di felicità che possono ancora esserci accordati sono quelli

in cui sappiamo farci discreti, lasciare in pace gli altri e noi stessi e andare a

distenderci tranquilli nelle praterie domenicali della vita.

In questa prospettiva, l’altro nome che possiamo dare a questa «felicità per

distrazione» è disponibilità. Essere discreti non significa abbandonare il

mondo e gli altri per una vita interiore più profonda, ma significa al contrario

essere disponibili nei confronti di tutto ciò che di buono o di cattivo può

accadere intorno a noi. La disponibilità è fatta per abdicare di continuo a se

stessa, ma sempre momentaneamente».





sabato 8 ottobre 2022

Alla città della mia infanzia

"Non aveva segreti per me la mia città. Fosse o lieta o alcuna ombra la oscurasse, ero abituato a compatire i suoi umori, a spartire i suoi sentimenti più celati, a seguirne le rimutazioni tanto sulla faccia che guardava il mare, quanto su quella che guardava la montagna. Era un affetto il mio ben più intimo e geloso, di quello che le cose inanimate o credute tali sogliono ispirare: misteriosa mistione di amore e di dubbio, insaziabile bisogno di fedeltà".

Tratto da "Alla città della mia infanzia, dico", racconto di Alberto Savinio, contenuto nella raccolta Casa «la Vita», Adelphi, 1988.


Alberto Savinio, raffinato scrittore e pittore, pseudonimo di Andrea Francesco Alberto de Chirico (Atene, 1891 – Roma, 1952) fratello del più noto pittore Giorgio de Chirico, ha espresso alla perfezione quello che provo per la mia città e in generale quello che proviamo un po' tutti verso il luogo di nascita o dove sono le nostre radici, simboli di appartenenza. Essere di casa infatti si dice quando siamo a nostro agio in un posto. Città-casa, simbolo di vita ma anche di morte, di mistero, di amore e odio. La casa è il luogo per eccellenza di tutto questo. Con il carico che porta dietro (e dentro, appunto). Costruire delle fondamenta e tenerle ben salde diventa con Savinio principio universale.



In foto, una veduta aerea di Novara, la mia città di nascita.