Non ho più ripreso, penso mentre Cri si prepara. Non so nemmeno se mi manca, la musica. Non so più niente. Vorrei, giuro che vorrei ma non riesco, come se una forza più forte di me mi prendesse per mano e mi trascinasse via. Non ho voglia di riprendere a suonare. Non me la sento. Mi spiace, caro Mozart. Mio adorato.
Ha la camicia azzurro cielo, senza cravatta, i pantaloni blu; porta la giacca di lino dello stesso colore sul braccio. Ho sentito che prima mi ha cercata in sala, mi vede e dice: «Cassandra, tesoro, allora vado, esci, mi raccomando. Non so quando finisco ma farò il possibile per non tornare tardi, te lo prometto». Viene verso di me e mi bacia sulla fronte. Sulla fronte. Io odio i baci sulla fronte. Sa che li odio, eppure me l’ha dato ugualmente. Non sono mica malata, è solo un periodo, così ha detto papà. Mi saluta di nuovo perché non ho risposto dopo il suo bacio sulla fronte, e allora dico: «Ciao, Cristian, ciao». Chiude la porta e se ne va. Lo vedo, si infila in macchina e mi sembra contento di salirci. Dall’andatura. La macchina ha i vetri oscurati. Non si vede nulla dentro, non vedo niente. Che ne so chi c’è dentro. È tutto così scuro. La berlina si muove. Le ruote scricchiolano su un leggero strato di ghiaietta. Sto alla finestra un altro po’. Oggi saremmo dovuti andare al lago, una gita tutta organizzata da me, finalmente c’ero riuscita. Deve vedere l’assessore, anche se è domenica. Non può rinviare perché in settimana l’assessore ha gli impegni politici, e lui ha i suoi, e loro devono discutere di cose urgenti, estremamente urgenti che io non capirei. Sono cose che non puoi capire, mi ha detto. Al che io ho ribattuto che avrei capito se soltanto me le avesse spiegate.
«Lo sai che il mio è un lavoro importante e delicato, non dovremmo nemmeno discuterne».
«Sì, ma allora la questione non è che io non capisco».
«Be’ sì, cioè no, non volevo dire che tu non capisci nel senso reale del termine, volevo dire che sono questioni di lavoro di cui non posso parlarti. E dai, su. Oggi puoi fare una bella passeggiata al Sempione. Dai che fra meno di un mese facciamo quel viaggio, non sei contenta?». Cri, ma chi lo vuole fare quel viaggio? Ho pensato. Dubai, e mi sento male. Non gliel’ho detto. Ho iniziato a sentire un groppo in gola e un nodo attorcigliato al posto dello stomaco. Si è girato per dirigersi verso la cabina armadio. Inizialmente l’ho seguito, poi ho indietreggiato e sono andata in bagno. Il Lexotan è lì. Poi corridoio, cucina, di nuovo corridoio, bagno, perché ho sbagliato, il Prozac di mattina, il Lexotan di sera. Tanto non ci sei mai, pensavo mentre andavo e tornavo, e per una volta, una volta che sono riuscita a organizzare tutto io, una cosa voluta da me, io e lui soli – sono riuscita a chiamare anche il ristorante per prenotare, che non sai che fatica ho fatto – ecco che è andato tutto male, e sono pure senza Marisa perché ha il giorno di riposo. Non dovrei stupirmi. Funziona così, a me va sempre tutto male. E anche quando provo a far andare bene le cose mi vanno male. Devo parlarti, Cri. È importante anche questo, Cri. Ma che glielo dico a fare, penso, tanto è sempre impegnato.
Milano è quasi deserta in questo periodo, e quando è così deserta anche il palazzo è deserto e ho paura. La Daniela è in montagna e la Letizia ha l’aereo per Londra. Le uniche vere amiche che ho. Le altre sono false, come questo mondo. C’è caldo e andare in giro in città è terribile. E poi non mi piace andare al parco da sola. E comunque non ne ho voglia. Avevo voglia di andare al lago. Ero riuscita a telefonare io al Momi affinché ci riservasse i posti migliori. C’ho impiegato due giorni prima di decidermi. Mi tremavano le mani. La mia mamma c’è nata, in quell’aria delicata del lago e il lago mi rasserena.
Avantieri, o ieri, quando esattamente non lo ricordo, mi ha detto: «Da quando è successo il fatto – il fatto, lo chiama lui – non hai ripreso ancora il lavoro». «Non me la sento, Cri, non me la sento», ho risposto. Non sono riuscita a dirgli altro. E mi ha guardata, dallo specchio, un sospiro e ha proseguito nella rasatura. Sono tornata a letto. Quando ha finito di farsi la barba ha aggiunto: «Cassy, cerchiamo di essere ottimisti, ok? Andrà tutto bene». Ero già a letto ma l’ho sentito lo stesso perché ha alzato la voce per dirlo. Io ero già nel mondo dei sogni. Sogno il mio piccolino; almeno lì nei sogni c’è. Non è un fatto come lo chiami tu, Cri. Non ho da dire alcun addio. Non è come la mia mamma, a lei ho detto addio perché c’è stata in questo mondo. È diverso. Non lo capisci nemmeno tu, Cri. Ce ne stiamo in veranda tranquilli io e il mio piccolino e poi ce ne andiamo in giro, eh, che dici Luchi? Però quando è più fresco ce ne andiamo al parco, che anche se la città è semideserta al parco ci sono gli altri bambini e le altre mamme e si sta bene. Starò con loro. La mia vita è lui e lui ha bisogno di me, solo di me, non ha bisogno di altri, ha bisogno della sua mamma perché la sua vita è la sua mamma e lui è la vita per la sua mamma. Mi sono sempre piaciuti i nomi maschili che finiscono con la esse, penso nel sogno. Ero indecisa con Thomas. Poi ha vinto Lucas. Quando mi risveglio sto male.
Ho rabbia dentro, Cri, che non so come spiegarti da dove viene. Avevo voglia di dirti anche questo, proprio così come l’ho pensato ora. Avrei parlato, sono sicura che lì ci sarei riuscita. In questa casa c’è rabbia e non riesco. In questa casa c’è veleno come quello che ingurgito. In questa casa mi sono sentita male, quel giorno. In questa casa sono stata cattiva, quel giorno. Chissà quando sarà, non ho voglia di pensare a un’altra occasione, adesso. Scricchiolo come la ghiaietta che ha scricchiolato quando ero alla finestra e ti ho visto salire su quella macchina. Ecco cosa sono, forse sono quella ghiaietta. Fammi sognare ancora, Cri. Fatemi sognare ancora.