26 dicembre 2024

Leggere per scrivere

Anche quest'anno il mio leggere è stato in prevalenza per scrivere. Ovvero, non per farmi trascinare esclusivamente dalla storia, bensì per ragionare su stile, trama, punti di vista, punteggiature e quali punteggiature e quante, quanti avverbi, quanti aggettivi, poetica dell'autore o autrice (parlo dei grandi del passato, più o meno recente) cosa vuole dirmi, perché vuole dirmelo, che libri leggeva, a chi si ispirava, in che periodo viveva, che studi ha compiuto, che lavoro ha svolto, che vita ha condotto, chi erano i genitori, fortuna o sfortuna nei sentimenti, problemi di salute, eccetera, eccetera. Non per un giudizio morale o etico, o peggio, moralistico,  ma proprio e solamente per conoscere, capire da dove (più che dove, direi quando e perché, da dove è il giusto mistero dell'arte. Il come, forse il più importante di tutti) quella determinata creazione artistica è venuta, e imparare. Conscia che i grandi del passato, più o meno recente, stanno lì a guardare e a guardarci, e chissà con quale reazione. A loro, e solo a loro, è necessario rimanere attaccati se non si vuole finire col cervello ammorbato dall'insulsaggine imperante. Conoscerli, imitarli, copiarli - anche copiando s'impara - e soprattutto leggerli. 

Questo discorso, oltretutto, non significa affatto che siano state, le mie, delle letture cosiddette  professionali, perché non sono né un critico letterario né un docente di scrittura o un editor. A me interessa scrivere, quando e se ho qualcosa da dire di possibilmente interessante o bello o, perché no, utile, nel senso di non inutile, e leggere con attenzione. Difficile tornare indietro. La pubblicazione, quella col timbro "visto si stampi", appartiene invece a un'altra dimensione, direi, spazio-temporale. 

Ovviamente non c'è nulla di male a leggere per un personale piacere, è il bello della lettura, e nemmeno a scrivere con intenti commerciali, per così dire. Ognuno fa le sue scelte e ha i suoi obiettivi. 

A nuove letture. 

A nuove scritture. 

A nuovi piaceri. 


19 dicembre 2024

Citazioni


Julio Cortázar (foto gettyimagines) 


Siamo sull'orlo della catastrofe, delle bombe atomiche, e il libro mi sembra solo una delle armi (estetica o politica o entrambe, ciascuno deve poter fare quel che vuole, basta che lo faccia bene) che ancora può difenderci dall'autogenocidio universale. Mi fa ridere che un romanziere si faccia venire l'ulcera perché il suo libro non è abbastanza famoso e si metta a organizzare «eventi» di autopromozione per non farsi dimenticare da editori e critici. Di fronte a quel che ci fanno vedere le prime pagine dei giornali ogni giorno, non sembrano ridicoli questi spasmodici attacchi d'ansia? Uno scrittore vero è quello che tende l'arco al massimo mentre scrive, e poi lo appende a un chiodo e se ne va a bere vino con gli amici. La freccia sarà già partita e raggiungerà o non raggiungerà il bersaglio, solo gli imbecilli pretenderanno di modificarne la traiettoria, o correrle dietro per aiutarla con opportune spinte mirate all'immortalità e alle edizioni internazionali. 

Julio Cortázar, 1969



13 dicembre 2024

Il peso del silenzio: "Non dire niente"

 



Se un prodotto di creazione contiene nel titolo la parola "niente" è interessante di per sé, visto il nome di questo blog. Ma della serie tv "Non dire niente" (in originale Say Nothing) e dell'omonimo libro da cui è tratta – merita parlarne per altri motivi e al di là delle battute. Il niente del silenzio omertoso è infatti il filo rosso della narrazione. Un silenzio che può unire o dividere i destini. 

Il suddetto titolo riprende una lirica del poeta nordirlandese premio Nobel, Seamus Heaney: "Qualunque cosa tu dica, non dire niente".

Uscito in Italia nel 2021 con Mondadori, collana Strade blu, il volume è un best-seller giornalistico scritto da Patrick Radden Keefe, nella traduzione di Manuela Faimali e racconta con documenti e immagini un pezzo di storia tragica che ha infiammato l’Irlanda del Nord: i "Troubles", ovvero la lotta armata tra Cattolici e Protestanti tra anni Sessanta e fine degli anni Novanta, che ha origini molto più lontane, derivanti dallo scontro sociale e politico tra nazionalismo irlandese per l’indipendenza dalla Gran Bretagna e gli unionisti che resistevano a tali richieste.
Sembra un déjà vu di fatti attuali ma con Nazioni diverse.

Per quanto riguarda invece la serie-tv, è di Josh Zetumer per la regia di Anthony Byrne, disponibile su Disney+ in nove puntate. Ottimamente diretta e rappresentata.

Una voce fuori campo - si capirà poco più tardi a chi appartiene - introduce il cuore della vicenda.
Subito dopo una scena descrive, solo anticipandolo, un terribile fatto accaduto nel 1972. Una giovane vedova, Jean McConville (interpretata da Judith Roddy) madre di dieci figli, viene prelevata con la forza dal proprio appartamento a Belfast. La sua prima colpa è quella di abitare in un palazzo nevralgico per le operazioni dell’Ira, acronimo di Irish Republican Army, l’organizzazione di tipo paramilitare che lottava per l’indipendenza.
L’altra terribile colpa è quella di essere ritenuta dai volontari dello stesso nucleo una spia solo per aver parlato con un soldato inglese.
Una successiva scena invece delinea la trama principale e vede un personaggio anch’esso realmente esistito, Dolours Price, rispondere a delle domande in una trasmissione radiofonica, ventinove anni dopo. L’intervista rientra nel "Belfast Project", un progetto con cui il college di Boston provò, con l’avvio del nuovo secolo, a ricostruire quegli anni di terrore, intervistando coloro che furono parte attiva e che si mostrarono d’accordo nel rivelare tutto, dietro la promessa che quanto detto non sarebbe stato di pubblico dominio fino alla loro morte.
Il confessare da parte di Dolours le sue illusioni divenute disillusioni riavvolge il nastro dei ricordi. La memoria individuale diventa memoria collettiva. La sua maturazione, la cui resa risulta efficace tramite i flashback, è anche la materia che offre una speranza.

Lei (interpretata da giovane da Lola Petticrew, da adulta da Maxine Peake) e la sorella minore Marian (interpretata da Hazel Doupe) sono le due protagoniste. I genitori, ex membri dell'Ira. Vivono in un quartiere cattolico della capitale. Ai cattolici non sono permessi gli stessi privilegi e protezioni dei protestanti. Mentre giocano con le bambole ascoltano le descrizioni del padre per imparare a resistere a un interrogatorio della polizia e faccende del genere. Dolours è inizialmente scettica con le idee familiari e anzi partecipa, coinvolgendo Marian, a una manifestazione pacifista. Ma verranno durante attaccate dalla parte avversa e questo le porta a vedere nei protestanti i nemici. Solo con la lotta armata si può fare giustizia, proprio come sentenziava il padre. Questo sarà la molla per la radicalizzazione, con il sostegno dei parenti. Come un destino già scritto. 
Entrate a far parte dell’Ira, con solenne giuramento, che impone tra le altre la regola del silenzio, saranno le prime donne militanti, agli ordini di Gerry Adams, leader che entrerà in seguito in politica contribuendo al processo di pace col governo britannico. L’uomo ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento con l’organizzazione, come ripetuto al termine di ogni episodio con un Disclaimer.

Al concludersi del dramma che è anche una dolorosa formazione giovanile, oltre all’amarezza e alla rabbia rimangono diversi spunti di riflessione e interrogativi, primi fra tutti sul senso, se c’è, della causa ideologica e l’ordine d'importanza tra questa e la vita umana, ai quali ogni spettatore darà, o proverà a dare, una risposta. Il resto, ormai, appartiene alla Storia.



 La locandina della serie-tv







La copertina del libro










10 dicembre 2024

Vivian Maier e la gloria postuma


             

(Autoritratto di Vivian Maier, 18 ottobre, 1953, New York /fonte foto vivianmaier.com)


Che un artista abbia successo in vita non è un fatto scontato. C'è chi la fama l'ha inseguita e avuta, c'è chi l'ha ottenuta e gliene importava poco di ottenerla, c'è chi l'ha avuta tardi o troppo tardi. Resta comunque fermo che il valore di un artista e soprattutto delle sue opere lo si misura col tempo. 

Un caso emblematico e curioso di successo tardivo è quello di Vivian Maier, ma vedremo altri esempi, come Goliarda Sapienza o Guido Morselli nella letteratura. 

Una donna dall'esistenza anonima che ha trovato una consacrazione artistica dopo la morte. In vita svolse un solo mestiere: la baby sitter presso famiglie benestanti americane. Vivian Maier nacque a New York nel 1926 e lavorò a lungo a Chicago. Aveva una grande passione: la fotografia. Ha fotografato di tutto, in particolare volti e oggetti ritratti nelle strade, cogliendone la vera essenza, tra luci e ombre- reali e metaforiche - compresa se stessa. È considerata da più parti una antesignana della street photography ed è richiestissima. Di lei infatti si parla molto, anche in Italia. Diverse le retrospettive. Fino al 2019 erano ben 15 le mostre dedicategli (fonte Artribune). L'ultima ancora in corso è alla Reggia di Monza inaugurata il 17 ottobre e si concluderà il 26 gennaio 2025, dedicata all'opera inedita (https://vivianmaierunseen.com/). 

Non mancano di certo i libri che la riguardano.  Chissà se  Vivian Maier gradirebbe queste attenzioni. È stata infatti una donna riservata. Talmente riservata da apparire misteriosa e questo ne ha alimentato il mito. Ma del mito, una volta che c'è, è difficile limitarne i confini. 

Per gli elementi biografici principali su Maier è sufficiente una rapida ricerca in rete. Tuttavia, per chi volesse approfondire, in libreria si può trovare una biografia appassionante e appassionata dal titolo Vita di Vivian Maier pubblicata in Italia da Utet, nel 2022, scritta da Ann Marks, nella traduzione di Chiara Baffa, contenente numerose immagini, altrettante fonti, anche medico-psichiatriche, interviste e testimonianze. 

Il volume è interessante perchè non solo si pone l'obiettivo logico di raccontare la vita di Vivian ma vuole cercare di capire il perchè di alcune sue scelte, contestualizzandole, prima fra tutte quella di aver nascosto praticamente a chiunque la propria vocazione. 

Vivian Maier è stata sicuramente tante cose diverse e contrarie, a partire dalle origini: francesi rurali e statunitensi urbane. Persino i riscontri dei bambini, ora adulti, che ha accudito sono contraddittori. Comunque, nonostante un'infanzia non facile - una madre instabile, un padre alcolista e violento e un fratello tossicodipendente e schizofrenico finito in riformatorio - ha fatto la vita che voleva, come evidenziato nel sottotitolo della biografia di Ann Marks: La storia sconosciuta di una donna libera. 

È riuscita a viaggiare in giro per il mondo, all'epoca non facile e non sostenibile per tutti, grazie ad alcune rendite, portando ovviamente con sè la macchina fotografica. Fu una autodidatta e si perfezionò con l'acquisto di uno strumento costoso e professionale, una Rolleiflex. In famiglia comunque la fotografia è stata presente e un'amica della madre era un'apprezzata fotografa, Jeanne Bertrand, che trasmise la passione a madre e figlia. 

Ma al di là di questo, come mai adesso si parla di Vivian Maier? La scoperta è dovuta a un caso fortuito. Tutto inizia nel 2007 quando un collezionista, di nome John Maloof, acquista alcuni scatoloni pieni di fotografie che sperava di usare per un libro che stava scrivendo. Da quel momento comincia un' indagine che lo porta a scoprire quel talento nascosto e una volta scoperto ne realizza un documentario, uscito nel 2014, Alla ricerca di Vivian Maier il titolo, ottenendo una candidatura agli Oscar. La gloria postuma era compiuta. 

È giunta alla morte anziana e sola, inerme e in ristrettezze economiche e ciò non ha giovato alla "causa" di John Maloof. Le illazioni si sono susseguite  ed è stato accusato di sensazionalismo in mancanza di una precisa volontà della donna riguardo al suo "testamento artistico", ovvero se desiderasse o no essere scoperta. 

Mentre dal lavoro meticoloso della biografa, durato sei anni, emerge altresì un interessante spaccato della condizione femminile e le differenze fra classi sociali nell'America degli anni che vanno dai Quaranta ai Sessanta del Novecento.

Per concludere, una bella citazione presente nel saggio, di Susan Sontag:

"Fotografare significa appropriarsi della cosa che si fotografa. Significa stabilire col mondo una relazione particolare".









5 dicembre 2024

Eugenio Borgna e il suo profondo vivere


(Questo articolo, scritto il 27 novembre scorso, necessita purtroppo di un aggiornamento: Eugenio Borgna ci ha nel frattempo lasciati). 
 

 Unisce la psichiatria all'antipsichiatria, la saggistica all'arte, il silenzio all'ascolto. 
Il suo nome è Eugenio Borgna, ha 94 anni ed è novarese (piccola nota personale e campanilistica, è conterraneo almeno di nascita di chi scrive e gestisce questo blog). Ha dedicato la vita ad aiutare le persone  con disturbi mentali, donne, in particolare. Forse la sua sensibilità è andata rafforzandosi col tempo per aver lavorato decenni nei reparti femminili di psichiatria. Ora è primario emerito dell’Ospedale Maggiore di Novara ed è stato a lungo libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano.

La platea dei suoi saggi è amplissima e varia. Le pagine traboccano di umanità e fiducia verso il prossimo. Gli argomenti che tocca sono quelli legati ai sentimenti e le emozioni umane e non sono scritti in un linguaggio specialistico, semmai tutt'altro: la mitezza, la tenerezza, la depressione, la nostalgia, la speranza, l'importanza delle parole per non ferire. A proposito di quest'ultima tematica, si è rivolto in particolare a genitori e insegnanti con le Le parole che ci salvano

Associare la casistica comune, quella che ha avuto modo di conoscere nell'esercizio della professione, ai casi più o meno noti di fragilità di poetesse e poeti, scrittori e scrittrici, rientra nella sua cifra stilistica. Borgna si concentra spesso sul legame fra creazione artistica e follia, con occhio clinico, certo, ma con stupore insieme. 

Per lui le malattie mentali si curano innanzitutto con l'ascolto, la comprensione vera e il dialogo. Fautore della scienza fenomenologica, ogni evento va studiato partendo dalla fonte, dalle origini che la determinano, dalle cause. Ai pazienti bisogna prima stare accanto, guardarli negli occhi per scrutarne l'anima, indagarne i recessi. Prima viene la persona, dopo la malattia di cui soffre. 

Nelle interviste ha denunciato spesso lo stato in cui versa la psichiatria, con la messa in evidenza delle complesse lacerazioni che la rendono una disciplina arida, relegata a un sapere preconfezionato. 

L'ultimo libro, intenso come al solito seppur breve, è appena uscito per Einaudi, l'editore che lo ha pubblicato finora oltre a Feltrinelli, e approfondisce una tematica per l'appunto femminile, ovvero quella del suicidio, lasciando sullo sfondo, per sua ammissione, l'atto perpetrato dagli uomini. Il titolo è L'ora che non ha più sorelle, riprendendo un verso di uno dei più grandi poeti del Novecento, Paul Celan, che sceglieva di morire nelle acque della Senna. 

Scrive Borgna nell'introduzione: 

«L'ora che non ha più sorelle è l'ultima ora della vita. Quando l'ora del vivere diviene l'ora del morire. […] Ci sono suicidi che nascono da condizioni di vita depressiva e suicidi che nascono da condizioni di vita non patologiche».

E ancora: 

«Nella donna le emozioni si modulano e si modificano in una stretta correlazione tematica con l'ambiente in cui si vive. Sono emozioni nobili e altere, liquide e sensibili all'accoglienza, o al rifiuto, da parte degli altri».

Analizza i casi di Simone Weil, Antonia Pozzi (che ama in particolare) Virginia Woolf, Amelia Rosselli, scava nelle loro parole per osservare e far emergere la bruciante disperazione e fa lo stesso con Margherita, Emilia, Stefania, sue anonime pazienti. Ma c'è spazio per le angosce e i tormenti interiori di Cesare Pavese (col quale non c'è assonanza) e Leopardi. I loro orizzonti, gli orizzonti di tutti loro, sono il motore propulsore del libro e del pensiero di Eugenio Borgna di cui, in questi tempi complicati e frenetici, dove siamo esseri socievoli e "social" più di nome che di fatto, c'è un gran bisogno.