mercoledì 17 dicembre 2025

Vitaliano Trevisan e il senso di scrivere (se ha un senso)


Perché si scrive? Perché scrivo?  Domanda che uno a volte si sente fare o si fa tra sé. Domanda rischiosa perché rischiosa e varia è la risposta. Ci sono diversi motivi per i quali una persona scrive. Per rivalsa, per sentirsi importanti, per passatempo oppure a scopo terapeutico. 

Eppure non c'è un senso nello scrivere, come non c'è un senso nell'arte. Forse però è proprio ciò che non ha senso ad avere un senso. Come la vita. Allora si potrebbe dire che l'arte è vita. 

Una fra le risposte più genuine su questo punto l'ha data Vitaliano Trevisan (1960-2022) e non poteva essere altrimenti. L'autore veneto era fuori da schemi preordinati, estraneo a circoli autocompiaciuti e compiacenti e voce fuori dal coro della narrativa italiana: 

«Perché scrivi? Io la guardo nei suoi occhi azzurri, poi guardo lo scrittore, dunque guardo di nuovo lei, quindi di nuovo lui, e lui, invece di venirmi in aiuto dice: già, volevo chiedertelo anch’io, ma visto che te l’ha chiesto lei… perché scrivi? Non solo non mi ha aiutato, penso, ma mi ha addirittura rifatto la domanda, e me l’ha rifatta in presenza della sua allieva che sta per essere pubblicata nell’antologia di under venticinque di Transeuropa che lui stesso cura insieme a Brizzi e alla Ballestra; allieva che lui stesso ha invitato, mettendomi in grandissimo imbarazzo, perché avendo letto le mie cose mi voleva conoscere, e me l’ha rifatta con la stessa serietà con cui un attimo prima mi era stata posta dall’under venticinque! Perché respirate? chiesi allo scrittore e alla sua allieva, nello studio dello scrittore. D’altronde non si può mica pretendere che uno risponda seriamente a una domanda del genere, pensavo aspettando l’ascensore. Gli ascensori non arrivano mai, e gli ascensori dell’ospedale arrivano anche più tardi degli altri». 

(Vitaliano Trevisan, Un mondo  meraviglioso, Einaudi, 2003).

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Immagine: Vitaliano Trevisan (fonte, sito Adi). 

martedì 9 dicembre 2025

I tagli di Lucio Fontana e i nostri



La retorica natalizia, ovvero tutte quelle frasi fatte che veicolano stereotipi e non valori sul significato genuino del Natale, che ormai entra nel vivo sempre più in anticipo senza una ragione apparente se non quella di apparire, esige di festeggiare nel modo che tutti si aspettano che festeggiamo. Noi che abbiamo imparato da Ingeborg Bachmann a dubitare delle frasi fatte, le rifuggiamo quindi come la peste. 

Come dimenticare inoltre il fatidico periodo delle classifiche: di vendita di qualcosa, di qualità di qualcosa, di ciò che ci è piaciuto o non piaciuto, di quanto fatto, eccetera eccetera. Dobbiamo persino condividerlo; in caso contrario sembriamo o meglio, secondo le regole della visibilità, siamo appunto invisibili e irrilevanti. 
Le classifiche classificano, creano classi,  raggruppano, ma separano dal resto. D'altronde sta nell'etimologia della parola.

È il momento anche della politica che deve fare i conti innanzitutto con se stessa e con le voci di bilancio; ma si sa, i conti non tornano mai. Mentre la politica internazionale, almeno attualmente, sembra più una barca che ha perso la propria bussola: naviga a vista. 

Inboccare vie d'uscita al pensiero comune, pensare pensando, trovare alternative, in particolare quando i fatti prendono il sopravvento (e l'ultimo mese dell'anno vi rientra a pieno titolo) è un modo per, come si suol dire... darci un taglio. 

Il taglio è qualcosa di netto, radicale. Come ha dimostrato Fontana con i suoi quadri. È più che quadri sono gesti rivoluzionari. Non sfregi, ma affermazioni di spazio. Con il taglio egli afferma che la tela non è più il luogo dell'illusione pittorica. È un oggetto reale, che l'artista apre per mostrare che l'arte può andare oltre. Dunque, si aspetta e si va oltre. 

                                      ***

Immagine: Lucio Fontana, Attesa, 1960, idropittura su tela (fonte, Fondazione Lucio Fontana). 







domenica 23 novembre 2025

Il mito dell'autorealizzazione nel saggio di Raffaele Alberto Ventura, "La conquista dell'infelicità"



La cultura è una salvezza e al contempo una condanna: lo afferma Raffaele Alberto Ventura nel suo nuovo saggio edito da Einaudi. Il titolo è La conquista dell'infelicità (sottotitolo: Come siamo diventati classe disagiata). L'autore, che ha già affrontato in passato tematiche simili, è nato negli anni Ottanta mentre io nei Settanta, ma poco importa. Siamo entrambi figli, e non solo noi, di una ideologia tipicamente borghese secondo la quale basta crederci ai sogni affinché si avverino, soprattutto quando sei iperqualificato. Che non significa non studiare o non avere ambizioni, bensì tenere i piedi ben piantati a terra e non fingere che l'autorealizzazione sia il rimedio per i mali contemporanei. Secondo alcuni questa è, con molta probabilità, una concezione troppo pessimistica, secondo altri vittimistica, dipende dalla visione del mondo e dalle esperienze. Anche la filosofia e la letteratura, delle quali troviamo esempi nel libro, hanno portato nei secoli all'affermazione di determinati modelli nel nostro immaginario di occidentali. 

Tuttavia, settori come la scrittura e le arti in genere rientrano fra i casi più lampanti. Scrivere senza guadagnarci nulla lo si fa perché ci si può permettere di farlo (e perché è bello) ma credere al successo perché si pubblica un libro o alla visibilità perché si scrive su giornali, blog o riviste (di solito sottopagati o gratis) è da ingenui, e Ventura affronta anche tale spinoso argomento. L'economia vocazionale, definita così, va ad alimentare un sistema distorto, con gli autori che, di fatto, ne sono complici. 

Tutti vogliamo essere apprezzati e riconosciuti per quello che facciamo, ed è normale. Ma non abbiamo tutti le stesse chance di farcela, come qualcuno, mentendo sapendo di mentire, sostiene. 

Quanto alla scrittura va detto che è un'attività dalla forte connotazione di impegno civile e di militanza rispetto ad altre, e non guarda solo alla natura retributiva. L'impegno civile ha un suo alto valore. Questo nulla toglie a una consapevolezza sempre più necessaria di cui parla l'autore. 


sabato 22 novembre 2025

La fine del mondo e Leonor Fini


L'assoluto è relativo. 
Nulla è dato sapere se non 
dolore infranto 
ammantato di bianco, ossa e cenere.
Il silenzio si agita nella notte gelida
che non ha dimora. 
L'anima vibra, e ama ancora. 

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Immagine: Leonor Fini, Le bout du monde II (La fine del mondo II), 1953, olio su tela. 

mercoledì 19 novembre 2025

Francesco Ciusa, un artista dimenticato (su Gli Stati Generali)

Scultore che giovanissimo ebbe un grande successo alla Biennale di Venezia del 1907, poi relegato ai confini della sua regione, la Sardegna. Una mostra a Nuoro intende riportare l'attenzione venuta meno.

Ne ho scritto su Gli Stati Generali, link all'articolo francesco-ciusa-artista-dimenticato/





 




 


 









lunedì 17 novembre 2025

Il rischio di una società tecnologica per Jacques Ellul (su SoloLibri)

Nella metà del Novecento il sociologo francese Jacques Ellul aveva già previsto il nostro attuale legame con la tecnologia, con il saggio La società tecnologica. Il rischio del secolo, riproposto ora in una nuova edizione. 

Ne scrivo su SoloLibri.net

Link all'articolo: La società tecnologica. Il rischio del secolo



Jacques Ellul (fonte immagine: Wikipedia)

venerdì 14 novembre 2025

La sorte, il tempo e Walter Benjamin


Succede di leggere in alcuni giornali di quei programmi televisivi in cui si possono vincere soldi senza alcun merito se non la fortuna, che non è un merito dovuto ad abilità, ma al caso. A volte è solo gossip, altre volte invece riportano come candidarsi, i requisiti richiesti per partecipare, come un'offerta di lavoro qualsiasi. Bisogna tuttavia dire che non si tratta di offerte di lavoro, anzi, non si tratta proprio di offerte. Dietro ogni offerta si cela il dramma e l'ebbrezza. 

Walter Benjamin, filosofo, scrittore e critico letterario tedesco — morto nel 1940 e il cui lascito intellettuale ha permesso una chiave di accesso al nostro contemporaneo — sosteneva che il giocare d'azzardo, cioè tentare la sorte all'unico scopo di aggiudicarsi somme di denaro, si modella sul sempre-uguale, sulla ripetizione, come un operaio automa di fronte alla macchina, in questo sì come il lavoro. 

Tra i numerosi temi da lui affrontati, il principale è la critica alla modernità capitalistica, che trova espressione letteraria nell’opera del maggior poeta della «Parigi capitale del secolo XIX», ossia Charles Baudelaire (1821-1867). Un libro che offre l'immagine più articolata del pensiero di Benjamin in proposito è Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell'età del capitalismo avanzato.
Benjamin sceglie il vate francese non tanto o non solo per la sua estetica decadente, quanto perché nei suoi testi — soprattutto nei poemetti in prosa, Le spleen de Paris —ravvisa unicità di sguardo nei confronti di chi viveva ai margini della società. Facendo per la prima volta della folla urbana un soggetto poetico, egli rappresenta le contraddizioni della vita metropolitana e per Benjamin è così che l'artista ha percepito la “Ville Lumière”. Gesti, ripetizioni, azioni, in un vortice che travolge il flâneur, colui che si ritrova immerso nella città, come in un sogno a occhi aperti. Questo choc diventa un nuovo modo di fare esperienza del moderno, completamente diverso dal precedente. 

Nell'esortazione all'ebbrezza di Baudelaire contenuta nel noto passo: «Bisogna essere sempre ubriachi. Tutto sta in questo: è l’unico problema. Per non sentire l’orribile fardello del Tempo che vi spezza le spalle e vi piega verso terra, ubriacatevi senza tregua! Di vino, di poesia o di virtù, come vi pare» Benjamin vi legge così una ribellione implicita verso il tempo meccanizzato del lavoro. 

Forse è questo: nel tentare la sorte si nasconde una ribellione contro il tempo. 



Walter Benjamin nel 1928 (fonte immagine: Wikipedia) 

sabato 1 novembre 2025

Tra amore e lotta per il lavoro: “Era andata a finire così”, di Maddalena Vianello (su SoloLibri)

Ho scritto su SoloLibri.net del romanzo di Maddalena Vianello, Era andata a finire così (Fandango Libri, 2025). Una storia di formazione al femminile tra amore e lotta per la dignità e la salute sui luoghi di lavoro. 

Link all'articolo Era andata a finire così


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Diego Rivera, Detroit Industry South Wall Pharmaceutics, 1932-33. 











sabato 11 ottobre 2025

A Francis Bacon




Volto indecifrabile e ribelle, 
inafferrabile e presente. 
È brama di amore. È frutto di dolore. 
Pensieri nell'ombra si agitano 
lasciando piccole tracce
e grandi passaggi. 
Osservatore instancabile, guarda
non visto. 
La gente cammina distratta dalla vita,
sorda, non saprà della magia. 
Scende la notte calma, 
e tu con lei. 

    ***


Immagine: Francis Bacon, Autoritratto, 1969. 

venerdì 3 ottobre 2025

Il mondo di Ingeborg Bachmann


«Esisto solo quando scrivo, non sono nulla se non scrivo, sono estranea a me stessa, fuori di me se non scrivo» diceva Ingeborg Bachmann, poetessa e scrittrice austriaca nata nel 1926 e morta nel 1973 in circostanze drammatiche e mai del tutto chiarite, nella sua casa di Roma. Una frase che non venne pronunciata per fare colpo su qualcuno, non era nel suo stile, bensì detta con la consapevolezza che la scrittura non è né passatempo, né forma di egocentrismo. 

Nel saggio "L'uomo deve affrontare la verità" contenuto nella raccolta di scritti intitolata A occhi aperti, a cura di Barbara Agnese, edita quest'anno da Adelphi, troviamo dichiarato: 

«Compito dello scrittore non può essere quello di negare il dolore. Al contrario deve riconoscerlo e poi ancora restituirlo in quanto reale, in modo che noi possiamo vederlo». 

Scopo della letteratura e dell'arte è quindi togliere il velo, senza paure o ipocrisie. Bachmann non scriveva per compiacere, per avere l'approvazione altrui, quanto piuttosto per rispetto nei confronti delle parole. 

In Letteratura come utopia, testo utile per comprendere come considerava la letteratura, ovvero “Un’etica del pensiero” (Adelphi, 1993) esprimeva la sua verità:

«L'operare dello scrittore non sarebbe forse hybrid, e non dovrebbe egli diffidare di ogni parola, persino di se stesso?». Chi scrive dunque si esercita su una lingua utilizzata da altri e in tal modo se ne abbevera in un processo apocrifo e inevitabile. 

Negli anni della sua poliedrica attività, iniziata con i versi e conclusa con la prosa (passaggio tra l'altro affrontato dalla critica in vari studi) i suoi interventi anche radiofonici sono stati numerosi.
In linea col pensiero del filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein, suo connazionale, Bachmann riconosce che il mondo è ciò che può essere detto, ma è proprio nell’attrito con l’indicibile che la scrittura trova il suo slancio più radicale. Non c'è spazio per le questioni metafisiche o morali; nulla può la filosofia. Tale limitazione del dicibile a ciò che può essere dimostrato porta a un vuoto che non è più solo linguistico ma, per Bachmann, esistenziale. Ed è nel desiderio di superare questo ostacolo che si esplicita la sua personale visione, evocata nel titolo A occhi aperti. Non solo perché vi si trovano racchiusi diversi contributi su ciò che più la premevano – autori, tematiche, ma perché rivelano il suo animo di artista. Nell'articolo sul già citato Wittgenstein di cui aveva svolto la tesi di dottorato, vi è un'articolata disamina sugli enunciati sensati e insensati del linguaggio comune. Come ricorda Barbara Agnese nella postfazione: «L’intero percorso intellettuale di Bachmann è stato improntato all’etica del sospetto verso le frasi fatte». Ci sono inoltre e tra altri, Thomas Bernhard, Witold Gombrowicz, Kafka, Giuseppe Ungaretti, Sylvia Plath, nonché uno splendido omaggio a Maria Callas: «una che sa per certo cos’è un’espressione»; non poteva mancare il Gruppo 47, movimento culturale nato all’indomani della Seconda guerra mondiale con l’intento di risollevare le sorti della Germania e rigettare l’assunto della “colpa collettiva”, formato dalla migliore intellighenzia tedesca (oltre a lei, entrata nel 1952, ne hanno fatto parte per esempio, Paul Celan, Heinrich Böll, Günter Grass, Peter Handke, tuttora vivente). Presente altresì il profondo legame, per lei imprescindibile, fra poesia e musica. Entrambe appartengono cioè a un linguaggio universale e si appartengono l'una all'altra.

Sempre rigorosa e tersa, Ingeborg Bachmann.
«Ho sentito che nel mondo si ha più tempo che senno, ma anche che gli occhi ci sono dati per vedere» scrive a conclusione del racconto sull'esperienza di vita a Roma, inserito anch'esso nel libro. Città amata e osservata, fino all'ultimo, nella sua dignità, nella più intima essenza.

Anche su «Gli Stati Generali», link all'articolo Il mondo di Ingeborg Bachmann





Nell'immagine sopra, Ingeborg Bachmann. 






domenica 28 settembre 2025

“Il mago”, di John Fowles (su SoloLibri)

In tempi in cui è difficile distinguere il vero dal falso ho scritto su SoloLibri.net della versione definitiva del romanzo Il mago, di John Fowles (Safarà, 2025) conosciuto in Italia per La donna del tenente francese

Link all'articolo Il mago

        John Fowles (fonte immagine: amsaw.org) 

lunedì 15 settembre 2025

A lezione da Vladimir Nabokov

 


Da quest'anno anche nella versione elettronica, è ormai un classico della saggistica letteraria: Lezioni di Letteratura di Vladimir Nabokov. Una raccolta organica degli appunti e dei numerosi fascicoli preparatori delle lezioni in classe da lui tenute in America, dove arrivò nel 1940, ovvero il periodo in cui pensava di scrivere quello che poi diverrà il suo capolavoro, Lolita, completato nel 1953. Grazie alla moglie Véra e al figlio Dmitri è stato possibile concludere un lavoro, per così dire di assemblaggio, che ha portato a questo corposo libro e Fredson Bower, nella prefazione, specifica di non aspettarsi di trovare il lessico o la sintassi che il celebre scrittore russo avrebbe usato sapendo di farne un libro. Non è stato riscritto tutto alla lettera, sarebbe stato impossibile farlo, spiega. 

Nabokov approdò prima alla Stanford University e al Wellesley College; poi alla Cornell University a Ithaca dove fu nominato Associate Professor di letteratura slava e dove insegnò nel corso sui "Maestri della narrativa europea" e su "Letteratura russa in traduzione inglese". Furono gli anni trascorsi in quell’ultima accademia i più prolifici: terminò il memoriale autobiografico Parla, ricordo e fu nello stesso periodo che la moglie gli impedì di bruciare le prime pagine della sua opera più famosa con protagonista Humbert Humbert. Divenne infine Visiting Professor nel 1952 ad Harvard e nel 1958 abbandonò in modo definitivo l'insegnamento. In particolare, le lezioni qui riunite costituiscono il programma svolto al Wellesley e alla Cornell. Nel nostro Paese hanno fatto la loro prima comparsa nei primi anni Ottanta, poi Adelphi ha eseguito una rivisitazione nel 2018 con introduzione del Premio Pulitzer John Updike che si è occupato della parte biografica, mentre la traduzione è di Franca Pece. L'ultima edizione è del 2022. 

Vladimir Nabokov (1899-1977) era figlio di una antica e nobile famiglia di San Pietroburgo; crebbe in un ambiente colto e raffinato dove si parlava oltre al russo anche l'inglese, che conobbe meglio della sua lingua madre. La rivoluzione del 1917 costrinse tutti i membri a fuggire in Europa dove il giovane Vladmir poté proseguire gli studi. Si laureò infatti al Trinity College di Cambridge.

Visse in Francia e in Germania dove il padre, un noto politico, venne assassinato. Uomo eclettico e versatile, fu anche un bravo scacchista - non solo come giocatore ma anche come teorico - e un entomologo, nonché saggista e critico; è stato certamente influenzato dal genitore alla cultura occidentale, pur rimanendo fedele alla tradizione drammaturgica russa.

In esergo di Lezioni di Letteratura troviamo questa frase semplice e diretta:

«Il mio corso è, tra le altre cose, una sorta di indagine poliziesca sul mistero delle strutture letterarie».

Descrizione che rende l'idea del metodo-Nabokov: far ragionare gli studenti sui meccanismi letterari e su come e perché nasce una narrazione, e le sue annotazioni e i disegni presenti nel testo rendono più chiaro e visibile il lavoro certosino eseguito ogni volta. Non solo mappe a corredo. 

Sono sette «i giocattoli meravigliosi» europei sotto la sua lente di ingrandimento: Mansfield Park di Jane Austen, l'Ulisse di Joyce, Casa desolata di Charles Dickens; Gustave Flaubert con Madame Bovary, Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr Hyde di Stevenson, il primo volume della Recherche di Proust, Dalla parte di Swann, e La Metamorfosi di Kafka, con opportuni confronti a Gogol' e Tolstoj.


Con vivacità scompone e ricompone ognuna di queste individuando le tecniche utilizzate, due su tutte la cosiddetta “mossa del cavallo”, ripresa dall'esperienza col gioco degli scacchi, o quella del “contrappunto”, vale a dire lo spezzare con interruzioni o inserti paralleli due o più conversazioni o flussi di pensiero. Il discorso diretto e quello indiretto, anch'essi spiegati e mostrati con gli esempi. I personaggi, i temi e le ambientazioni, con gli elementi negativi e fallaci, le battute d'arresto o al contrario le basi solide su cui poggiano gli argomenti utilizzati dai romanzieri per raccontare le loro storie, comprese le influenze letterarie e il motivo per cui tali opere si devono considerare espressione di talento, ossia di consapevolezza letteraria. Com'è riuscito Dickens a tenere uniti protagonisti e avvenimenti mantenendoli vivi con costanza per tutto il tempo di una lunga narrazione oppure come il creatore di Jekyll e Hyde con una sola mirabile scena, quella della trasformazione, ha permesso al suo protagonista di entrare nella memoria collettiva, o Proust che ha saputo ricreare un intero mondo in retrospettiva attraverso personaggi dai molteplici aspetti, e così gli altri.

«Sebbene ogni essere umano abbia il proprio stile, l'unico su cui valga la pena soffermarsi è quello dello scrittore di genio, e il genio non può esprimersi nello stile letterario dello scrittore se egli non lo possiede nell'anima». 

Quindi se lo stile per Nabokov non si può insegnare, tutto il resto può e dev'essere oggetto di studio. Non si preoccupava più di tanto dei fatti d'interesse umano, era un anti freudiano, nè del senso comune ma solo dell'opera in quanto tale. Con ironia agli allievi diceva che il libro segue il suo destino e proprio come il destino che può essere imprevedibile, anche la vita di uno scrittore alle volte lo può essere, ricalcando la storia da lui stesso generata: come Tolstoj che trovò la morte presso una stazione ferroviaria seguendo le orme di Anna Karenina o come Stevenson quando gli venne un colpo apoplettico, e prima di morire ha detto: “Cosa succede, mi è cambiata la faccia?”.

I discorsi sempre arguti, a volte taglienti, ma da Nabokov nelle vesti di docente non ci si poteva aspettare nulla di diverso:

«La letteratura è invenzione. Le opere di fantasia rimangono sempre fantasia, e dire che un'opera di fantasia è una storia vera è un insulto sia all'arte che alla verità. Tutti i grandi scrittori sono grandi imbroglioni, proprio come quella grandissima imbrogliona della Natura».

Nemico dell'identificazione, riteneva che il vero lettore deve sapere quando e in che momento tenere a bada la propria immaginazione e per farlo deve conoscere il mondo che un autore gli pone perché «il romanzo non si deve leggere né col cuore e neanche col cervello ma con la spina dorsale». Non lascia spazio a dubbi o equivoci.

Lezioni di letteratura unisce l'utile al dilettevole in quanto valido strumento se ci si pone nell'ottica di acquisizione dello spirito critico nella lettura, e anche un libro appassionato e appassionante, per non dimenticare che la letteratura è arte e che un buon scrittore è innanzitutto un buon lettore. 

Anche su Gli Stati generali. Link all'articolo A lezione da Vladimir Nabokov


Vladimir Nabokov (fonte immagine: getty)






giovedì 4 settembre 2025

“L'emicrania” di Antonio Alatorre (su SoloLibri)

Ho scritto su Sololibri.net di L'emicrania, di Antonio Alatorre. Non un manuale di medicina, bensì un memoir letterario di uno dei più importanti saggisti e critici messicani, tradotto per la prima volta in italiano. 

Link all'articolo L'emicrania



               Antonio Alatorre (fonte: porcierto.com) 

martedì 26 agosto 2025

Il manifesto di Duchamp contro il conformismo

 


Prima o poi capita a tutti di trovarsi in un importante museo o galleria di qualche città e farsi largo tra la folla per riuscire a vedere un'opera famosa, mentre le altre che gli stanno intorno, se si fa caso, vengono ignorate dai più. 

Marcel Duchamp (Blainville-Crevon, 1887 – Neuilly-sur-Seine, 1968) pittore e scultore francese naturalizzato americano, è considerato dalla critica uno degli artisti più influenti del XX secolo. Precursore dell’arte concettuale, faceva utilizzo di oggetti di uso comune scelti con cura – una fontana, una ruota di bicicletta, tra i più noti – che venivano decontestualizzati dandogli un’altra dimensione estetica, detti ready made, “oggetti già fatti”. A volte i ready made consistevano in reinterpretazioni di grandi capolavori del passato. Quella che fece nel 1919 della Gioconda di Leonardo da Vinci rientra fra i suoi lavori più celebri. Vi applicò dei baffi sul labbro superiore e un pizzetto e lo intitolò L.H.O.O.Q. il cui significato è dato dalle lettere che pronunciate in francese suonano in modo provocatorio Elle a chaud au cul, ovvero “Lei si concede facilmente”. Tale tecnica non fu l’unica che portò avanti, ma il senso era sempre quello di stimolare lo spettatore alla riflessione, ad andare oltre le apparenze, oltre le più facili omologazioni e non farsi attrarre dalla presunta realtà. Al contempo aprì la strada a una nuova idea di arte, un’arte che metteva in discussione se stessa, e di artisti.

L’opera in questione è ritenuta un manifesto contro il conformismo. Duchamp non voleva screditare il dipinto o l’autore, bensì denunciare l’atteggiamento di coloro che apprezzano l’arte solo perché la contemplano tutti in quanto bella e molto conosciuta. Come se a sorridere sotto quei baffi fosse lo stesso Leonardo.

Una riflessione piuttosto attuale in periodi di viaggi, vacanze e overtourism. Al Louvre ammiriamo spesso la “vera” Gioconda attraverso i display dei cellulari dei visitatori che abbiamo davanti, con la speranza che sappiano almeno cosa stanno guardando o perché sono lì e non altrove oppure al Museo Reina Sofía di Madrid, per citare solo alcuni fra i numerosi luoghi di interesse, dov’è esposto Guernica di Picasso, di fronte alla quale una muraglia umana è quotidianamente tenuta a distanza da paletti divisori con a lato un operatore pronto a evitare danni o avvicinamenti improvvidi nonostante i paletti, per poi magari offrire un veloce e distratto sguardo al resto degli affreschi presenti.

Invece la rivisitazione di Duchamp fa parte di una collezione privata statunitense.


(Anche su Gli Stati Generali, link all'articolo: il-manifesto-di-duchamp-contro-il-conformismo/)

 




 









lunedì 21 luglio 2025

Pensare da scrittori prima di esserlo. “La scrittura non si insegna”, di Vanni Santoni

Forse non si può insegnare a scrivere, ma si può insegnare a pensare da scrittori e per farlo ci sono una serie di abitudini che è necessario acquisire. La prima è la più banale, eppure in quanto banale ha un fondamento pratico: leggere tanto, e ancora leggere, prendere appunti, ricopiare.

Parla di questo e di altro un breve saggio del 2020, ancora più attuale data la varietà di pubblicazioni a cui assistiamo ogni giorno, di Vanni Santoni, scrittore e docente alla Scuola del libro (Minimum Fax, Collana Filigrana). Il titolo è alquanto perentorio: La scrittura non si insegna ed è nato dall'esperienza di aver avuto troppi allievi che volevano scrivere senza aver letto abbastanza. Perché allora, si domanda e domanda Santoni, voler scrivere se non si è letti almeno Alla ricerca del tempo perduto di Proust e l'Ulisse di Joyce? Un interrogativo provocatorio ma neanche tanto se ci si pensa bene, semmai è pertinente. Tenendo conto che quanto abbiamo di fronte non è un manuale di scrittura creativa, bensì un pamphlet, e dunque per sua natura sfidante. Di per sé non è un male che tante persone vogliano scrivere, ma lo diventa quando si vuole scrivere e pubblicare senza cognizione di causa. Oltre ai due citati, l'autore elenca una serie di altri libri corposi, una trentina circa, da Roberto Bolaño a David Forster Wallace, da Sebald a Tolstoj e Dostoevskij, da Jane Austen a Borges, e altri da leggere una volta affinate le basi  e in relazione al genere a cui ci si vuole avvicinare. Questione di sensibilità che si apprende leggendo e scrivendo. Testi che ritiene imprescindibili per chi vuole scrivere seriamente. La scelta è ricaduta su dei capolavori non solo in quanto tali, ma perché in essi si celano variegate suggestioni dovute anche alle numerose pagine che li compongono. Opere imperfette, come vengono definite, perché capaci di provocare sommovimenti, dare consapevolezza delle infinite possibilità del romanzo contemporaneo. Quindi per esempio non Lo straniero di Camus in quanto «piccolo diamante che si può ammirare ma dal quale non è immediato imparare qualcosa».

È importante inoltre far parte di una comunità: confrontarsi, fondare una rivista o scrivervi per mettersi alla prova, conoscere o farsi conoscere. In sostanza, creare e dotarsi di una rete di interessi umanistici. Che non significa in seguito pubblicare un libro, sarebbe una ingenuità anche solo pensarlo. Può capitare ma anche no. Le variabili sono tante e l'editoria è impresa, settore economico. 

Dopo la scrittura c'è un ulteriore processo inevitabile ed è la revisione. In particolare farsi leggere da chi è al nostro livello, cioè da coloro che hanno più interesse a farlo per il fatto che lo facciamo o possiamo farlo noi con loro. Non amici o parenti, vuoi perché non intenditori, vuoi perché difficilmente vi diranno che quanto hanno appena letto non gli è piaciuto, e nemmeno rivolgersi, senza retribuirli, ai professionisti dell'editoria che proprio perché professionisti vanno pagati per il lavoro che svolgono. 

Se si vuole scrivere un romanzo bisogna aver chiaro, avverte ancora Vanni Santoni, che l'impegno è totalizzante; è la letteratura a imporlo. Deve prima diventare uno stile di vita. Se non ci si nutre di buone letture l'impresa è ardua. La scrittura infatti non è come comunemente si pensa un'attività facile da praticare. Ci si mette al computer e si aspetta la musa. Non è esattamente così che funziona o che si spera funzioni. Si tratta di un'arte e l'arte richiede studio. L'arte richiede di eccellere. Averlo presente è un primo importante passo.




mercoledì 16 luglio 2025

Alla scoperta di Vali Myers: “Cara Vali”, di Chiara Centioni (su SoloLibri)

Ho scritto su Sololibri.net del romanzo Cara Vali, (Castelvecchi, 2025) di Chiara Centioni e della scoperta di se stessa attraverso la ballerina e pittrice australiana Vali Myers, vissuto a lungo a Positano.

Link all'articolo Cara Vali,




Vali Myers, 1959, in un ritratto di Norman Ikin


venerdì 4 luglio 2025

L'uomo allo specchio


L'uomo che non conosciamo è seduto di fronte a uno specchio bordato d'argento. 

L'immagine riflessa fa da sfondo a un'apparente realtà. La gente intorno a lui si muove e intorno vaga, alla ricerca delle illusioni. Le forme sprofondano nella gelata atmosfera di parole mancate, di abbracci perduti, amori celati. 

Laggiù, la sua anima persa nel vuoto, 
anima di un viandante 
che trema di stanchezza nelle ore più buie.
Le luci della sera, ora, sono sempre più vicine. 
L'uomo in noi che non conosciamo, trova nell'indefinito
il suo mondo dipinto d'azzurro. 
Il dolore non sarà vano forse, 
o forse no, lo sarà.
L'uomo che non conosciamo, solo vede se stesso
solo nella luce febbrile di un cielo luminoso, e ci osserva beffardo.


*

Immagine: René Magritte, Il falso specchio, 1928.
                          

martedì 17 giugno 2025

Giorgio Manganelli e la scrittura come esercizio di libertà



Quando la morte lo coglie all'improvviso nel 1990, Giorgio Manganelli aveva pronto un dattiloscritto (non l'unico, tra l'altro) composto da saggi e interventi pubblicati fra il 1966 e quello stesso anno su diversi quotidiani e riviste, riguardanti i temi del leggere, dello scrivere e del recensire libri. Un corpus omogeneo, pensato e organicamente strutturato dallo scrittore: una vera e propria ‘raccolta d’autore’ poi divenuto un libro edito da Adelphi nel 1994. All'inizio il titolo doveva essere Frantumaxione di parole per decisione di chi si occupava di trascrivere il materiale, Ebe Flamini. Quando il testo è stato seguito per la stampa si è preferito, come spiega la curatrice Paola Italia, Il rumore sottile della prosa, titolo di uno degli articoli presenti, perché rendeva meglio cosa intendesse Manganelli per letteratura: lo spessore della pagina, l'intensità della scrittura. Qualità che hanno contraddistinto l'intera sua opera. Le parole non solo devono avere un senso, ma essere portatrici di un disegno. Ed è soltanto con l'inganno, con l'artificio che si può chiudere il cerchio. 

Manganelli rompe ogni legame con la tradizione letteraria e ha pochi eguali, ma numerosi seguaci; al di là alle legittime aspirazioni o degli accostamenti che vengono fatti dalla critica. È diventato anche un personaggio letterario, reso da Romana Petri in Cuore di furia (Marsilio, 2020). Lo stile manganelliano è labirintico, volutamente provocatorio. Un racconto-incantesimo che mescola il lirismo all’indagine filosofica, alternandolo alla dissertazione. Esplora la potenza del linguaggio come strumento di esorcismo, sottolineando che chi non padroneggia le regole della scrittura rischia di rimanerne schiacciato. Il suo rapporto con la parola è quello di un illusionista, un alchimista, capace di rendere la sintassi un organismo vivente, una “lava in perpetuo movimento” che si anima nella scrittura, nella lettura e nella rilettura. Tre concetti chiave di un intenso percorso. La prosa di Giorgio Manganelli è un’esplorazione vertiginosa della lingua, un gioco di costruzione e de-costruzione che affonda le radici nella letteratura rinascimentale e barocca. Così facendo trasforma la scrittura in un esercizio di disobbedienza, demolisce l’idea che la letteratura debba avere intenti educativi, meno che mai moralistici. “L'estrosità intellettuale si guasta come un niente”. Non ultimo è l'affondo spietato e ironico nei confronti dei successi letterari (o insuccessi) e dei premi.

Giorgio Manganelli ci insegna dunque a non avere paura della complessità, a non fermarci all'ovvio, ad andare oltre il puro e semplice dualismo del mi piace/non mi piace. Perché uno sguardo critico «introduce oscurità dove è illusoria chiarezza, porta notte dove è la menzogna del giorno, cattura e tesaurizza l’errore dove apparentemente si dà pertinenza»

(anche su Gli Stati Generali, link all'articolo Giorgio Manganelli e la scrittura come esercizio di libertà)




Sopra, un'immagine di Giorgio Manganelli (fonte, Modlet). 









lunedì 9 giugno 2025

Invisibili sogni


Nessun luogo mi lega, e tutto mi lega. 
Desiderio senza fine, con un fine. 
Smanio per qualcosa che non so cosa sia nell'infinito accadere -
Vivo di sogni sognati e vedo ciò che non sento
Hanno chiuso le porte ma non ho chiavi, mi hanno vietato i banchetti. Hanno scoperchiato i tombini. 
Nella via ritrovata non c'è il numero. 
Mi sono svegliata nella stessa vita in cui mi ero addormentata e non l'ho più riconosciuta
I miei sogni si sono sentiti falsi per essere stati sognati. La vita desiderata mi raggela - persino la vita.
Comprendo a intervalli sconnessi; penso nella mente e scrivo. 
Il vento mi scaraventa su una spiaggia sconosciuta
Non so quale destino o quale futuro spetti alla mia incertezza senza direzione; 
Invisibile sogno. 
È nel profondo del mio spirito, dove sogno ciò che ho sognato, nei campi estremi dell'anima in cui rammento senza una causa, nelle strade lontane dove ho ipotizzato di essere, fuggono ormai smantellati gli ultimi rimasugli di illusioni perdute,
i miei eserciti sognanti, sconfitti in partenza. 
Un'altra volta ti rivedo, 
città lontana dell'infanzia, ancora una volta sono qui a sognare. Ma sono lo stessa che torna. La stessa che sono. 
Ti vedo orizzonte invisibile 
con il cuore distante da me
Un'altra volta ti rivedo e tutto passa e quanto più passa, resta. 
Errante dovunque vada, cammino, stancamente cammino 
Un'altra volta ti rivedo, ombra che passa fra altre ombre, e riluce un istante sotto le tenebre, ed entra come la scia di una nave che si perde nelle acque nere. 
Un'altra volta ti rivedo, città dei sogni. 
È in frantumi lo specchio magico in cui mi guardo, e in ogni frammento eterno vedo soltanto pezzi di me – pezzi di noi. 

                                      ***
 
Immagine: Salvador Dalí, L'uomo invisibile, 1929-32, Olio su tela, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia di Madrid.

mercoledì 28 maggio 2025

Cioran e “Il crepuscolo dei pensieri” (sul Culturificio)

Ho scritto del filosofo-saggista Emil Cioran, a partire da Il crepuscolo dei pensieri, Adelphi, 2024.

Link all'articolo pubblicato sul blog Culturificio:





Emil Cioran 



martedì 20 maggio 2025

Flannery O'Connor e l'arte di scrivere

Brano tratto da Un ragionevole uso dell'irragionevole. Saggi sulla scrittura e lettere sulla creatività, Minimum Fax, 2019, capitolo "Natura e scopo della narrativa":


San Tommaso chiamava l’arte «ragione in atto». È una definizione molto fredda e molto bella, e se oggigiorno è impopolare, è perché la ragione ha perso terreno fra noi. Come la grazia e la natura sono state separate, così è stato per l’immaginazione e la ragione, e questo significa sempre la fine dell’arte. L’artista usa la propria ragione per trovarne una corrispondente in tutto quel che vede. Per lui, essere ragionevole è trovare, nell’oggetto, nella situazione, nella sequenza, lo spirito che li rende tali. Non è cosa facile, né semplice. È un’invasione dell’eterno, e viene fatta solo con la violenza di un rispetto assoluto per la verità. Ne deriva che non esiste una tecnica da scoprire e applicare che renda possibile scrivere. Se frequentate una scuola dove si tengono corsi di scrittura, dovrebbero insegnarvi non a scrivere, ma piuttosto i limiti e le potenzialità delle parole, e il rispetto loro dovuto. 



 
    Flannery O'Connor e i suoi amati pennuti 



 


venerdì 9 maggio 2025

Il talento nella serie tv sulla danza

La serie tv Étoile targata Prime Video, in otto episodi, uscita il 24 aprile scorso, ideata dai coniugi Palladino, gli stessi dei Griffin e di Una mamma per amica, è ambientata nei due templi mondiali della danza classica, rappresentazioni di due diverse realtà: il Ballet National di Parigi e il Metropolitan Ballet Theater di New York. Per superare la crisi di introiti, conseguenza della pandemia e dall’allontanamento dei giovani da una pratica considerata di nicchia, le rispettive dirigenze scelgono di rinnovarsi ed effettuano uno scambio temporaneo dei loro migliori ballerini.

Sulla trama prevalgono le personalità dei protagonisti. La famosa quanto difficile étoile Cheyenne (Lou de Laâge), nella foto di copertina in una scena.

Lo sfrontato e ribelle Gabin, ballerino solista (Ivan du Pontavice). Il coreografo stravagante Tobias (Gideon Glick) e Mishi (Taïs Vinolo), col peso di una madre ministra del governo e per questo considerata dalle colleghe una raccomandata.

Ciò che è interessante è che, tramite loro viene mostrato senza bisogno di dirlo, cosa è il talento. Un concetto semplice solo all’apparenza. Di per sé infatti significa poco.

A esistere invece sono: il sacrificio, l’ambizione, la determinazione, l’attitudine a condurre una vita non ordinaria, conoscenze giuste al momento giusto, disponibilità economica. Nella storia c’è anche una “fata”, forse la vera protagonista perché incarna tutto questo e altro, come l’innocenza o le disuguaglianze: la piccola coreana Susu, interpretata da una bravissima LaMay Zhang; col sogno di fare la ballerina si esercita mentre la madre pulisce di notte le sale deserte e casualmente viene notata da Cheyenne.

La passione da sola non basta. Nel talento c’è più pragmatismo che romanticismo. Dall’altra parte ci saranno gli applausi o i complimenti, ma anche tanta gente che non aspetta altro che un tuo passo falso o che solo analizza e giudica quel che fai e come, in un mondo spietato e competitivo.

Ma il talento occorre anche per mandare avanti la parte burocratica e amministrativa da parte dei responsabili delle compagnie, Jack McMillan (Luke Kirby) e Geneviève Lavigne (Charlotte Gainsbourgl, la Jane Eyre nel film di Franco Zeffirelli del 1996) che devono rendere conto del loro operato al Consiglio di amministrazione o a un’istituzione che li finanzia.

Con una parte tecnica ben studiata, segno che i produttori della serie hanno voluto mettere in evidenza cosa c’è dietro alla qualità dell’arte e ai dettagli, si fa un po’ fatica a stare dietro ai ripetuti cambi di scena fra America e Francia e relativi personaggi. Ci si è un po’ persi anche in vecchi cliché. Nel complesso un prodotto godibile, con diversi spunti di riflessione applicabili con facilità non solo al campo della danza.

(anche su Gli Stati Generali, link all'articolo danza-etoile)



La locandina



domenica 27 aprile 2025

Antonio Gramsci e l'indifferenza alla Storia

Il messaggio di Antonio Gramsci contenuto nel testo Odio gli indifferenti si può considerare la summa, il manifesto del suo pensiero. Non per niente viene citato spesso, anche sui social. Come tutti i grandi pensatori però è meglio leggere, se non è possibile tutto, e tutto non sempre è possibile, almeno molto della vasta produzione, per comprenderlo appieno. Altrimenti rimane uno slogan per le pronte occasioni e le bacheche virtuali. 


Link all'articolo del 2019 su Solo Libri: Odio gli indifferenti















giovedì 24 aprile 2025

L'ultima dedica di Mario Vargas Llosa



La letteratura ha il potere di imprimere una direzione alla Storia? Con questo eterno interrogativo si è congedato Mario Vargas Llosa, in un romanzo intitolato al silenzio.

La metafora del silenzio infatti è il filo conduttore dell’ultimo libro di Mario Vargas Llosa, morto il 13 aprile scorso lasciando un vuoto nella letteratura sudamericana e mondiale. Proprio di recente la casa editrice che lo pubblica in Italia, Einaudi, ha dichiarato che in autunno uscirà postumo un romanzo breve, I venti.

Le dedico il mio silenzio, è uscito nel 2024 nella traduzione di Federica Niola e ha come protagonista Toño Azpilcueta, di origini improbabili, cognome basco e padre italiano; è un personaggio malinconico e bizzarro con la fobia per i roditori, ma il più grande esperto di musica peruviana.

Gli accademici però ignorano Toño Azpilcueta, sebbene lui non senta di valere meno di loro. Oltre a scrivere articoli per cui viene pagato pochissimo, impartisce lezioni di Disegno e Musica tenute al Colegio del Pilar in un quartiere di Lima molto distante dal suo. In cambio riceve istruzione gratuita per le sue due figlie, Azucena e María, di dieci e dodici anni. Un giorno riceve una telefonata inaspettata proveniente da un famoso intellettuale, il dottor José Durand Flores, che lo invita a seguire il concerto di quello che considera il miglior chitarrista che sia mai esistito, Lalo Molfino il nome, ma Toño incredibilmente non ne ha mai sentito parlare. Accetta «senza immaginare che l’invito gli avrebbe rivelato una verità che fino a quel momento aveva solo intuito».

Dopo aver ascoltato Molfino suonare e aver provato sensazioni ed emozioni uniche e soprattutto dopo che il geniale musicista improvvisamente muore, per giunta nell’indifferenza generale, vuole rendergli giustizia, e decide di scrivere un libro su di lui. Per farlo dovrà recarsi nei luoghi dove Molfino è cresciuto, a Puerto Eten, paesino costiero sperduto situato a Nord del Paese. Porta avanti l’ambizioso progetto come una missione, e può farlo grazie alla moglie, Matilde, che pensa al sostentamento della famiglia con lavoretti precari e all’amico e conpadre Collau che gli dà fiducia e lo aiuta economicamente ad affrontare il viaggio. Il periodo non è dei migliori per la Nazione, già segnata da contrasti e lacerazioni sociali profonde. Le violenze e gli attentati di Sendero Luminoso, movimento rivoluzionario fondato da Abimael Guzmán, imperversano.

Il nostro però non vuole realizzare solo una biografia di Lalo Molfino, ma un vero e proprio trattato sul folklore peruviano, visto quest’ultimo come strumento di pace e unione fraterno. La stesura si rivelerà ben presto più complessa del previsto. L’autore sembra non essere mai soddisfatto del lavoro svolto, continue sono le aggiunte per migliorarlo. Vuole che sia perfetto. Ultimata l’opera si pone il problema di convincere un editore, e infine il pubblico, delle sue argomentazioni.

La huachafería – letteralmente “pacchianeria”, un tratto che accomuna la maggior parte dei peruviani di ogni estrazione, ma è in particolare espressione di identità – e il vals criollo – tipico valzer dalle caratteristiche seducenti – provengono dalla fusione di etnie diverse: europee, andine e africane.

I luoghi dove si formarono i primi ballerini e chitarristi erano delle anguste stanzette, i callejones, dove vivevano stipate persone che con tutta la famiglia si trasferivano dai villaggi verso la capitale, alla ricerca di lavoro. Nessuno avrebbe mai pensato che in quei locali avrebbero trovato dimora le musiche popolari, eppure è accaduto. Così come la storia d’amore emblematica, definita “esempio empirico” dal narratore, fra Toni Lagarde, un ragazzo di Miraflores di buona famiglia e la negrita Lala Solórzano, ballerina del vals, nonché figlia di genitori umili che abitavano in un callejón. Nessuno avrebbe scommesso sui due; invece il loro è stato un matrimonio felice e duraturo. Sono rimasti uniti nonostante le barriere, contro e oltre ogni pregiudizio culturale e razziale:

«Ma i genitori di Toni non lo perdonarono mai. Erano testardi, di quelli che mantengono i loro rancori a oltranza, e gli chiusero per sempre le porte di casa loro».

Tra contenuti romanzeschi e saggistici (e alternando narrazione in prima e terza persona) Vargas Llosa costruisce una metanarrazione tra il mito e il reale, tra magia e memoria storica, dove si mischiano personaggi esistenti, come la cantante Cecilia Barraza, di cui Toño è segretamente innamorato, e personaggi di fantasia.

Non riconosciuti entrambi dalla società, Lalo e Toño rappresentano un popolo emarginato, ma mai sconfitto. Forse un libro non cambierà il mondo, ma potrà gettare un seme per le generazioni future. Sembra essere questo l’ultimo messaggio di speranza e sogno del Premio Nobel per la letteratura 2010.


(Anche su Gli Stati Generali, link all'articolo le-dedico-il-mio-silenzio-di-mario-vargas-llosa/)


                           


I quattro musicisti, dipinto di Fernando Botero, si trova nella copertina del libro







sabato 19 aprile 2025

L'inno alla vita di Anna Maria Ortese

Brano tratto da Corpo Celeste di Anna Maria Ortese, Adelphi, 1997, p. 53

Sono lieta, in mezzo alle mie tristezze mediterranee, di essere qui. E dirvi com'è bello pensare strutture di luce, e gettare come reti aeree sulla terra, perché essa non sia più quel luogo buio e perduto che a molti appare, o quel luogo di schiavi che a molti si dimostra - se vengono a occupare i linguaggi, il respiro, la dignità delle persone. A dirvi come sia buona la Terra, e il primo dei valori, e da difendere in ogni momento. 



                     





mercoledì 16 aprile 2025

domenica 30 marzo 2025

La scrittura come un coltello, di Annie Ernaux (su Solo Libri)

La scrittura come un coltello, di Annie Ernaux. Premio Nobel per la letteratura nel 2022. Ne parlo su Solo Libri.

Link all'articolo La scrittura come un coltello



Annie Ernaux (fonte, Getty images)  

mercoledì 26 marzo 2025

L'attualità di Cioran sul turismo

Scriveva Emil Cioran, in una lettera all'amico Arşavir (tratto da L'orgoglio del fallimento, Lettere ad Arşavir e Jeni Acterian, a cura di Antonio Di Gennaro, Mimesis, collana Volti, 2021, traduzione italiana di Magda Arhip e Laureto Rodoni):

Dieppe, 28 agosto 1972

Mio caro Arşavir,

condivido le tue opinioni disilluse sulle vacanze, su questa nuova religione, perché proprio di questo si tratta! – la peggiore. Negli ultimi anni non si può più viaggiare d’estate. È impossibile trovare una stanza da qualche parte. Milioni di persone in movimento. Una cosa del genere non accadeva dai tempi delle invasioni barbariche. Prima potevo visitare l’Inghilterra, la Spagna, l’Italia cambiando posto ogni giorno; ora non posso. Così ho concluso la mia carriera da turista. Sono qui, in riva al mare, in un luogo dove c’è poca gente, poiché fa freddo e la spiaggia è priva di sabbia… Meglio così! Vivere senza telefono, senza visite, senza connazionali, senza appuntamenti di qualsiasi tipo: è questo il paradiso. Non puoi immaginare il tempo che spreco a Parigi in chiacchiere. Gente di tutto il mondo viene lì, e io non vado da nessuna parte. Le ore che ho passato negli ultimi anni in conversazioni insipide, avrei potuto usarle per imparare il cinese o il sanscrito.


    Emil Cioran (fonte, Bridgeman images). 

sabato 22 marzo 2025

“Wild swimming” di Giorgia Tolfo (su Solo Libri)

Su SoloLibri.net scrivo di un esordio, quello di Giorgia Tolfo col suo Wild swimming (Bompiani, 2025), proposto da Laura Pugno per il Premio Strega di quest'anno. 

Link all'articolo  Wild swimming




mercoledì 19 marzo 2025

L'amore indissolubile nelle lettere di Salvatore Satta




[Dall'archivio di Solo Libri] 

«Laura, mia indissolubile compagna, io ti benedico per queste gioie improvvise che mi giungono dal tuo ricordo. Ogni lettera che leggo è un rivivere il tempo immemorabile che abbiamo insieme trascorso, ignoti prima l'uno all'altro, poi improvvisamente svelati nel nostro comune destino. Io credo che se questa gioia dovesse durare a lungo, di Bob non troveresti un giorno altro che il mito quasi pagano, poiché mi dissolverei in te, e altra sorte per me non vorrei».

Link all'articolo Mia indissolubile compagna

Salvatore Satta dimostra con le sue opere quanto diritto e letteratura viaggino su binari paralleli. Su questo si veda anche l'articolo di Treccani on-line  https://www.treccani.it/enciclopedia/diritto-e-letteratura_(Enciclopedia-delle-scienze-sociali)/


Salvatore Satta e sua moglie, Laura Boschian (foto tratta dal Il manifesto).