venerdì 27 giugno 2025

La truffa

 Quello che doveva essere è sempre stato e quello che è sempre stato non cambiava. Ci provai con tutte le mie forze a dare una svolta alla mia vita. Davvero. Ma dovevo avere pazienza per quanto ne avessi già avuta abbastanza e fare per bene. Tutti potevano avere occhi e orecchie e io dovevo comportarmi in modo assolutamente normale. Più facile a dirsi che a farsi. Né troppo tesa, né troppo sciolta. Né troppo felice, né troppo triste. Per prima cosa dovevo pensare a me stessa e questo era già da solo un evento; di ciambella ne prenderò una anziché due, decisi decisa, ma una la dovevo mangiare per forza altrimenti sarei svenuta all’improvviso. Non ero abituata, ma mi sarei abituata presto; tenere fermo il proposito, e così è stato. Già molto. Una volta dentro al panificio ho chiesto: Una sola ciambella per favore, e quattro panini, ben cotti, quelli di ieri erano un poco crudi, sai, Paola?. E lei: Va bene, come preferisci, tesoro, ora guardo. Sei strana stamattina! Che hai, tutto bene? Strana io? Tutto bene, certo, ho detto con una prontezza che mai mi sarei aspettata. Non ero mai pronta. La chiamavo Paola e lei mi chiamava tesoro. Forse eccessiva quella prontezza perché anche nell’essere pronta non andava mai bene e pur come volevo essere, sbagliavo. Se non altro avrebbe smesso di chiamarmi tesoro.

Sono arrivata in filiale alle sette e cinquantacinque; il direttore era già nella sua piccola stanza, mi sono affacciata per salutarlo, si è voltato appena, come al solito senza dire nulla.  Ho girato di spalle e mi sono diretta verso la mia postazione. Mentre digitavo la password ho visto le mie mani tremare. Il computer sembrava persino sorridere. Nel frattempo il collega di pacchi e corrispondenza seduto alla mia sinistra è arrivato e mi ha guardato con quella sua aria di sufficienza, o insufficienza. Tanto pensavo che un semplice invio faceva o avrebbe potuto stravolgere i destini. Un banale comando e l’ordine si ristabiliva nel disordine. Finalmente potevo stabilirlo io, l'ordine per me, il disordine per gli altri. Avere il potere immenso di condurre il gioco. Assumermi il rischio. Perché no? Cos'è il rischio di essere scoperti se non godere nella scoperta. Era tutto a portata di mano, perfino troppo. Uno fra i tanti gesti conosciuti da diventare meccanici. Poter attraversare la rete, diventare parte dei tre zeri che stavo digitando.  Ho cercato di non pensare alla piega che stavano prendendo gli eventi in una rapida successione che mai mi sarei immaginata, ma era impossibile e non volevo neanche. Era tutto molto più bello di così, o lo sarebbe stato. Al rientro le nuvole erano scure e compatte. Eppure stamattina era una bellissima giornata, ho pensato. Ho affrettato il passo perché avevo paura che piovesse e di certo non avevo l’ombrello. La strada da percorrere non era tanta. Ho tutto vicino, casa-lavoro, lavoro-casa. Così, la mia vita da vent'anni. Per l'esattezza diciannove e quattro mesi. Ancora mi tremavano le mani e me ne sono accorta come ho appoggiato le chiavi nello svuota tasche a forma di cuore, nel mobile del disimpegno all’ingresso. Sono entrata nel cucinino e ho visto Molly che dormiva beata sulla sedia. Beata lei. L'odore del sugo impregnava le narici. Mi è parso bruciato e non sarebbe stata la prima volta. Sono tornata, ho detto a bassa voce. L'ho detto più che altro a me stessa. Si sentiva mia madre russare dalla porta aperta della sala. Ho visto da dietro i ciuffi grigi dei capelli che spuntavano dalla poltrona. La tele accesa. Mio padre dormiva in camera. Non c'era bisogno di vederlo, tutto era uguale come sempre. Avevo già in mano il cellulare. Ormai da quasi un anno ci vivevo col cellulare in mano; lo controllavo ogni cinque minuti, alle volte meno. Cosicché ho inviato il secondo messaggio. Nel primo avevo scritto: Ci siamo, ultima parte. Poi la solita frenetica mattinata con i clienti e i loro problemi insulsi e i colleghi ancora più insulsi dei clienti non mi aveva permesso di mandarne altri. Cosicché finalmente gli ho scritto: Amore mio, li abbiamo tutti quei maledetti che ci servivano. Che abbia inizio la nostra nuova vita, lontano da questo posto di merda. I love you. 

Che sia messo a verbale.




martedì 17 giugno 2025

Giorgio Manganelli e la scrittura come esercizio di libertà



Quando la morte lo coglie all'improvviso nel 1990, Giorgio Manganelli aveva pronto un dattiloscritto composto da saggi e interventi pubblicati fra il 1966 e quello stesso anno su diversi quotidiani e riviste, riguardanti i temi del leggere, dello scrivere e del recensire libri. Un corpus omogeneo, pensato e organicamente strutturato dallo scrittore: una vera e propria ‘raccolta d’autore’ poi divenuto un libro edito da Adelphi nel 1994. All'inizio il titolo doveva essere Frantumaxione di parole per decisione di chi si occupava di trascrivere il materiale, Ebe Flamini. Quando il testo è stato seguito per la stampa si è preferito, come spiega la curatrice Paola Italia, Il rumore sottile della prosa, titolo di uno degli articoli presenti, perché rendeva meglio cosa intendesse Manganelli per letteratura: lo spessore della pagina, l'intensità della scrittura. Qualità che hanno contraddistinto l'intera sua opera. Le parole non solo devono avere un senso, ma essere portatrici di un disegno. Ed è soltanto con l'inganno, con l'artificio che si può chiudere il cerchio. 

Manganelli rompe ogni legame con la tradizione letteraria e ha pochi eguali, ma numerosi seguaci; al di là alle legittime aspirazioni o degli accostamenti che vengono fatti dalla critica. È diventato anche un personaggio letterario, reso da Romana Petri in Cuore di furia (Marsilio, 2020). Lo stile manganelliano è labirintico, volutamente provocatorio. Un racconto-incantesimo che mescola il lirismo all’indagine filosofica, alternandolo alla dissertazione. Esplora la potenza del linguaggio come strumento di esorcismo, sottolineando che chi non padroneggia le regole della scrittura rischia di rimanerne schiacciato. Il suo rapporto con la parola è quello di un illusionista, un alchimista, capace di rendere la sintassi un organismo vivente, una “lava in perpetuo movimento” che si anima nella scrittura, nella lettura e nella rilettura. Tre concetti chiave di un intenso percorso. La prosa di Giorgio Manganelli è un’esplorazione vertiginosa della lingua, un gioco di costruzione e de-costruzione che affonda le radici nella letteratura rinascimentale e barocca. Così facendo trasforma la scrittura in un esercizio di disobbedienza, demolisce l’idea che la letteratura debba avere intenti educativi, meno che mai moralistici. “L'estrosità intellettuale si guasta come un niente”. Non ultimo è l'affondo spietato e ironico nei confronti dei successi letterari (o insuccessi) e dei premi.

Giorgio Manganelli ci insegna dunque a non avere paura della complessità, a non fermarci all'ovvio, ad andare oltre il puro e semplice dualismo del mi piace/non mi piace. Perché uno sguardo critico «introduce oscurità dove è illusoria chiarezza, porta notte dove è la menzogna del giorno, cattura e tesaurizza l’errore dove apparentemente si dà pertinenza»

(anche su Gli Stati Generali, link all'articolo Giorgio Manganelli e la scrittura come esercizio di libertà)




Sopra, un'immagine di Giorgio Manganelli (fonte, Modlet). 









lunedì 9 giugno 2025

Invisibili sogni

Nessun luogo mi lega, e tutto mi lega. 
Desiderio senza fine, con un fine. 
Smanio per qualcosa che non so cosa sia nell'infinito accadere -
Vivo di sogni sognati e vedo ciò che non sento
Hanno chiuso le porte ma non ho chiavi, mi hanno vietato i banchetti. Hanno scoperchiato i tombini. 
Nella via ritrovata non c'è il numero. 
Mi sono svegliata nella stessa vita in cui mi ero addormentata e non l'ho più riconosciuta
I miei sogni si sono sentiti falsi per essere stati sognati. La vita desiderata mi raggela - persino la vita.
Comprendo a intervalli sconnessi; penso nella mente e scrivo. 
Il vento mi scaraventa su una spiaggia sconosciuta
Non so quale destino o quale futuro spetti alla mia incertezza senza direzione; 
Invisibile sogno. 
È nel profondo del mio spirito, dove sogno ciò che ho sognato, nei campi estremi dell'anima in cui rammento senza una causa, nelle strade lontane dove ho ipotizzato di essere, fuggono ormai smantellati gli ultimi rimasugli di illusioni perdute,
i miei eserciti sognanti, sconfitti in partenza. 
Un'altra volta ti rivedo, 
città lontana dell'infanzia, ancora una volta sono qui a sognare. Ma sono lo stessa che torna. La stessa che sono. 
Ti vedo orizzonte invisibile 
con il cuore distante da me
Un'altra volta ti rivedo e tutto passa e quanto più passa, resta. 
Errante dovunque vada, cammino, stancamente cammino 
Un'altra volta ti rivedo, ombra che passa fra altre ombre, e riluce un istante sotto le tenebre, ed entra come la scia di una nave che si perde nelle acque nere. 
Un'altra volta ti rivedo, città dei sogni. 
È in frantumi lo specchio magico in cui mi guardo, e in ogni frammento eterno vedo soltanto pezzi di me - pezzi di noi. 

 
Salvador Dalí, L'uomo invisibile, 1929-32, Olio su tela, 140x80 cm, Museo Nacional  Centro de Arte Reina Sofia di Madrid 

sabato 7 giugno 2025

Flannery O'Connor e l'arte di scrivere - Citazioni

Brano tratto da Un ragionevole uso dell'irragionevole. Saggi sulla scrittura e lettere sulla creatività, Minimum Fax, 2019, cap. "Natura e scopo della narrativa". 


San Tommaso chiamava l’arte «ragione in atto». È una definizione molto fredda e molto bella, e se oggigiorno è impopolare, è perché la ragione ha perso terreno fra noi. Come la grazia e la natura sono state separate, così è stato per l’immaginazione e la ragione, e questo significa sempre la fine dell’arte. L’artista usa la propria ragione per trovarne una corrispondente in tutto quel che vede. Per lui, essere ragionevole è trovare, nell’oggetto, nella situazione, nella sequenza, lo spirito che li rende tali. Non è cosa facile, né semplice. È un’invasione dell’eterno, e viene fatta solo con la violenza di un rispetto assoluto per la verità. Ne deriva che non esiste una tecnica da scoprire e applicare che renda possibile scrivere. Se frequentate una scuola dove si tengono corsi di scrittura, dovrebbero insegnarvi non a scrivere, ma piuttosto i limiti e le potenzialità delle parole, e il rispetto loro dovuto. 



 
    Flannery O'Connor e i suoi amati pennuti