La retorica natalizia, ovvero tutte quelle frasi fatte che veicolano stereotipi e non valori sul significato genuino del Natale, che ormai entra nel vivo sempre più in anticipo senza una ragione apparente se non quella di apparire, esige di festeggiare nel modo che tutti si aspettano che festeggiamo. Noi che abbiamo imparato da Ingeborg Bachmann a dubitare delle frasi fatte, le rifuggiamo quindi come la peste.
Come dimenticare inoltre il fatidico periodo delle classifiche: di vendita di qualcosa, di qualità di qualcosa, di ciò che ci è piaciuto o non piaciuto, di quanto fatto, eccetera eccetera. Dobbiamo persino condividerlo; in caso contrario sembriamo o meglio, secondo le regole della visibilità, siamo appunto invisibili e irrilevanti.
Le classifiche classificano, creano classi, raggruppano, ma separano dal resto. D'altronde sta nell'etimologia della parola.
È il momento anche della politica che deve fare i conti innanzitutto con se stessa e con le voci di bilancio; ma si sa, i conti non tornano mai. Mentre la politica internazionale, almeno attualmente, sembra più una barca che ha perso la propria bussola: naviga a vista.
Inboccare vie d'uscita al pensiero comune, pensare pensando, trovare alternative, in particolare quando i fatti prendono il sopravvento (e l'ultimo mese dell'anno vi rientra a pieno titolo) è un modo per, come si suol dire... darci un taglio.
Il taglio è qualcosa di netto, radicale. Come ha dimostrato Fontana con i suoi quadri. È più che quadri sono gesti rivoluzionari. Non sfregi, ma affermazioni di spazio. Con il taglio egli afferma che la tela non è più il luogo dell'illusione pittorica. È un oggetto reale, che l'artista apre per mostrare che l'arte può andare oltre. Dunque, si aspetta e si va oltre.
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Immagine: Lucio Fontana, Attesa, 1960, idropittura su tela (fonte, Fondazione Lucio Fontana).
