26 dicembre 2024

Leggere per scrivere

Anche quest'anno il mio leggere è stato in prevalenza per scrivere. Ovvero, non per farmi trascinare esclusivamente dalla storia, bensì per ragionare su stile, trama, punti di vista, punteggiature e quali punteggiature e quante, quanti avverbi, quanti aggettivi, poetica dell'autore o autrice (parlo dei grandi del passato, più o meno recente) cosa vuole dirmi, perché vuole dirmelo, che libri leggeva, a chi si ispirava, in che periodo viveva, che studi ha compiuto, che lavoro ha svolto, che vita ha condotto, chi erano i genitori, fortuna o sfortuna nei sentimenti, problemi di salute, eccetera, eccetera. Non per un giudizio morale o etico, o peggio, moralistico,  ma proprio e solamente per conoscere, capire da dove (più che dove, direi quando e perché, da dove è il giusto mistero dell'arte. Il come, forse il più importante di tutti) quella determinata creazione artistica è venuta, e imparare. Conscia che i grandi del passato, più o meno recente, stanno lì a guardare e a guardarci, e chissà con quale reazione. A loro, e solo a loro, è necessario rimanere attaccati se non si vuole finire col cervello ammorbato dall'insulsaggine imperante. Conoscerli, imitarli, copiarli - anche copiando s'impara - e soprattutto leggerli. 

Questo discorso, oltretutto, non significa affatto che siano state, le mie, delle letture cosiddette  professionali, perché non sono né un critico letterario né un docente di scrittura o un editor. A me interessa scrivere, quando e se ho qualcosa da dire di possibilmente interessante o bello o, perché no, utile, nel senso di non inutile, e leggere con attenzione. Difficile tornare indietro. La pubblicazione, quella col timbro "visto si stampi", appartiene invece a un'altra dimensione, direi, spazio-temporale. 

Ovviamente non c'è nulla di male a leggere per un personale piacere, è il bello della lettura, e nemmeno a scrivere con intenti commerciali, per così dire. Ognuno fa le sue scelte e ha i suoi obiettivi. 

A nuove letture. 

A nuove scritture. 

A nuovi piaceri. 


19 dicembre 2024

Citazioni


Julio Cortázar (foto gettyimagines) 


Siamo sull'orlo della catastrofe, delle bombe atomiche, e il libro mi sembra solo una delle armi (estetica o politica o entrambe, ciascuno deve poter fare quel che vuole, basta che lo faccia bene) che ancora può difenderci dall'autogenocidio universale. Mi fa ridere che un romanziere si faccia venire l'ulcera perché il suo libro non è abbastanza famoso e si metta a organizzare «eventi» di autopromozione per non farsi dimenticare da editori e critici. Di fronte a quel che ci fanno vedere le prime pagine dei giornali ogni giorno, non sembrano ridicoli questi spasmodici attacchi d'ansia? Uno scrittore vero è quello che tende l'arco al massimo mentre scrive, e poi lo appende a un chiodo e se ne va a bere vino con gli amici. La freccia sarà già partita e raggiungerà o non raggiungerà il bersaglio, solo gli imbecilli pretenderanno di modificarne la traiettoria, o correrle dietro per aiutarla con opportune spinte mirate all'immortalità e alle edizioni internazionali. 

Julio Cortázar, 1969



13 dicembre 2024

Il peso del silenzio: "Non dire niente"

 



Se un prodotto di creazione contiene nel titolo la parola "niente" è interessante di per sé, visto il nome di questo blog. Ma della serie tv "Non dire niente" (in originale Say Nothing) e dell'omonimo libro da cui è tratta – merita parlarne per altri motivi e al di là delle battute. Il niente del silenzio omertoso è infatti il filo rosso della narrazione. Un silenzio che può unire o dividere i destini. 

Il suddetto titolo riprende una lirica del poeta nordirlandese premio Nobel, Seamus Heaney: "Qualunque cosa tu dica, non dire niente".

Uscito in Italia nel 2021 con Mondadori, collana Strade blu, il volume è un best-seller giornalistico scritto da Patrick Radden Keefe, nella traduzione di Manuela Faimali e racconta con documenti e immagini un pezzo di storia tragica che ha infiammato l’Irlanda del Nord: i "Troubles", ovvero la lotta armata tra Cattolici e Protestanti tra anni Sessanta e fine degli anni Novanta, che ha origini molto più lontane, derivanti dallo scontro sociale e politico tra nazionalismo irlandese per l’indipendenza dalla Gran Bretagna e gli unionisti che resistevano a tali richieste.
Sembra un déjà vu di fatti attuali ma con Nazioni diverse.

Per quanto riguarda invece la serie-tv, è di Josh Zetumer per la regia di Anthony Byrne, disponibile su Disney+ in nove puntate. Ottimamente diretta e rappresentata.

Una voce fuori campo - si capirà poco più tardi a chi appartiene - introduce il cuore della vicenda.
Subito dopo una scena descrive, solo anticipandolo, un terribile fatto accaduto nel 1972. Una giovane vedova, Jean McConville (interpretata da Judith Roddy) madre di dieci figli, viene prelevata con la forza dal proprio appartamento a Belfast. La sua prima colpa è quella di abitare in un palazzo nevralgico per le operazioni dell’Ira, acronimo di Irish Republican Army, l’organizzazione di tipo paramilitare che lottava per l’indipendenza.
L’altra terribile colpa è quella di essere ritenuta dai volontari dello stesso nucleo una spia solo per aver parlato con un soldato inglese.
Una successiva scena invece delinea la trama principale e vede un personaggio anch’esso realmente esistito, Dolours Price, rispondere a delle domande in una trasmissione radiofonica, ventinove anni dopo. L’intervista rientra nel "Belfast Project", un progetto con cui il college di Boston provò, con l’avvio del nuovo secolo, a ricostruire quegli anni di terrore, intervistando coloro che furono parte attiva e che si mostrarono d’accordo nel rivelare tutto, dietro la promessa che quanto detto non sarebbe stato di pubblico dominio fino alla loro morte.
Il confessare da parte di Dolours le sue illusioni divenute disillusioni riavvolge il nastro dei ricordi. La memoria individuale diventa memoria collettiva. La sua maturazione, la cui resa risulta efficace tramite i flashback, è anche la materia che offre una speranza.

Lei (interpretata da giovane da Lola Petticrew, da adulta da Maxine Peake) e la sorella minore Marian (interpretata da Hazel Doupe) sono le due protagoniste. I genitori, ex membri dell'Ira. Vivono in un quartiere cattolico della capitale. Ai cattolici non sono permessi gli stessi privilegi e protezioni dei protestanti. Mentre giocano con le bambole ascoltano le descrizioni del padre per imparare a resistere a un interrogatorio della polizia e faccende del genere. Dolours è inizialmente scettica con le idee familiari e anzi partecipa, coinvolgendo Marian, a una manifestazione pacifista. Ma verranno durante attaccate dalla parte avversa e questo le porta a vedere nei protestanti i nemici. Solo con la lotta armata si può fare giustizia, proprio come sentenziava il padre. Questo sarà la molla per la radicalizzazione, con il sostegno dei parenti. Come un destino già scritto. 
Entrate a far parte dell’Ira, con solenne giuramento, che impone tra le altre la regola del silenzio, saranno le prime donne militanti, agli ordini di Gerry Adams, leader che entrerà in seguito in politica contribuendo al processo di pace col governo britannico. L’uomo ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento con l’organizzazione, come ripetuto al termine di ogni episodio con un Disclaimer.

Al concludersi del dramma che è anche una dolorosa formazione giovanile, oltre all’amarezza e alla rabbia rimangono diversi spunti di riflessione e interrogativi, primi fra tutti sul senso, se c’è, della causa ideologica e l’ordine d'importanza tra questa e la vita umana, ai quali ogni spettatore darà, o proverà a dare, una risposta. Il resto, ormai, appartiene alla Storia.



 La locandina della serie-tv







La copertina del libro










10 dicembre 2024

Vivian Maier e la gloria postuma


             

(Autoritratto di Vivian Maier, 18 ottobre, 1953, New York /fonte foto vivianmaier.com)


Che un artista abbia successo in vita non è un fatto scontato. C'è chi la fama l'ha inseguita e avuta, c'è chi l'ha ottenuta e gliene importava poco di ottenerla, c'è chi l'ha avuta tardi o troppo tardi. Resta comunque fermo che il valore di un artista e soprattutto delle sue opere lo si misura col tempo. 

Un caso emblematico e curioso di successo tardivo è quello di Vivian Maier, ma vedremo altri esempi, come Goliarda Sapienza o Guido Morselli nella letteratura. 

Una donna dall'esistenza anonima che ha trovato una consacrazione artistica dopo la morte. In vita svolse un solo mestiere: la baby sitter presso famiglie benestanti americane. Vivian Maier nacque a New York nel 1926 e lavorò a lungo a Chicago. Aveva una grande passione: la fotografia. Ha fotografato di tutto, in particolare volti e oggetti ritratti nelle strade, cogliendone la vera essenza, tra luci e ombre- reali e metaforiche - compresa se stessa. È considerata da più parti una antesignana della street photography ed è richiestissima. Di lei infatti si parla molto, anche in Italia. Diverse le retrospettive. Fino al 2019 erano ben 15 le mostre dedicategli (fonte Artribune). L'ultima ancora in corso è alla Reggia di Monza inaugurata il 17 ottobre e si concluderà il 26 gennaio 2025, dedicata all'opera inedita (https://vivianmaierunseen.com/). 

Non mancano di certo i libri che la riguardano.  Chissà se  Vivian Maier gradirebbe queste attenzioni. È stata infatti una donna riservata. Talmente riservata da apparire misteriosa e questo ne ha alimentato il mito. Ma del mito, una volta che c'è, è difficile limitarne i confini. 

Per gli elementi biografici principali su Maier è sufficiente una rapida ricerca in rete. Tuttavia, per chi volesse approfondire, in libreria si può trovare una biografia appassionante e appassionata dal titolo Vita di Vivian Maier pubblicata in Italia da Utet, nel 2022, scritta da Ann Marks, nella traduzione di Chiara Baffa, contenente numerose immagini, altrettante fonti, anche medico-psichiatriche, interviste e testimonianze. 

Il volume è interessante perchè non solo si pone l'obiettivo logico di raccontare la vita di Vivian ma vuole cercare di capire il perchè di alcune sue scelte, contestualizzandole, prima fra tutte quella di aver nascosto praticamente a chiunque la propria vocazione. 

Vivian Maier è stata sicuramente tante cose diverse e contrarie, a partire dalle origini: francesi rurali e statunitensi urbane. Persino i riscontri dei bambini, ora adulti, che ha accudito sono contraddittori. Comunque, nonostante un'infanzia non facile - una madre instabile, un padre alcolista e violento e un fratello tossicodipendente e schizofrenico finito in riformatorio - ha fatto la vita che voleva, come evidenziato nel sottotitolo della biografia di Ann Marks: La storia sconosciuta di una donna libera. 

È riuscita a viaggiare in giro per il mondo, all'epoca non facile e non sostenibile per tutti, grazie ad alcune rendite, portando ovviamente con sè la macchina fotografica. Fu una autodidatta e si perfezionò con l'acquisto di uno strumento costoso e professionale, una Rolleiflex. In famiglia comunque la fotografia è stata presente e un'amica della madre era un'apprezzata fotografa, Jeanne Bertrand, che trasmise la passione a madre e figlia. 

Ma al di là di questo, come mai adesso si parla di Vivian Maier? La scoperta è dovuta a un caso fortuito. Tutto inizia nel 2007 quando un collezionista, di nome John Maloof, acquista alcuni scatoloni pieni di fotografie che sperava di usare per un libro che stava scrivendo. Da quel momento comincia un' indagine che lo porta a scoprire quel talento nascosto e una volta scoperto ne realizza un documentario, uscito nel 2014, Alla ricerca di Vivian Maier il titolo, ottenendo una candidatura agli Oscar. La gloria postuma era compiuta. 

È giunta alla morte anziana e sola, inerme e in ristrettezze economiche e ciò non ha giovato alla "causa" di John Maloof. Le illazioni si sono susseguite  ed è stato accusato di sensazionalismo in mancanza di una precisa volontà della donna riguardo al suo "testamento artistico", ovvero se desiderasse o no essere scoperta. 

Mentre dal lavoro meticoloso della biografa, durato sei anni, emerge altresì un interessante spaccato della condizione femminile e le differenze fra classi sociali nell'America degli anni che vanno dai Quaranta ai Sessanta del Novecento.

Per concludere, una bella citazione presente nel saggio, di Susan Sontag:

"Fotografare significa appropriarsi della cosa che si fotografa. Significa stabilire col mondo una relazione particolare".









5 dicembre 2024

Eugenio Borgna e il suo profondo vivere


(Questo articolo, scritto il 27 novembre scorso, necessita purtroppo di un aggiornamento: Eugenio Borgna ci ha nel frattempo lasciati). 
 

 Unisce la psichiatria all'antipsichiatria, la saggistica all'arte, il silenzio all'ascolto. 
Il suo nome è Eugenio Borgna, ha 94 anni ed è novarese (piccola nota personale e campanilistica, è conterraneo almeno di nascita di chi scrive e gestisce questo blog). Ha dedicato la vita ad aiutare le persone  con disturbi mentali, donne, in particolare. Forse la sua sensibilità è andata rafforzandosi col tempo per aver lavorato decenni nei reparti femminili di psichiatria. Ora è primario emerito dell’Ospedale Maggiore di Novara ed è stato a lungo libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano.

La platea dei suoi saggi è amplissima e varia. Le pagine traboccano di umanità e fiducia verso il prossimo. Gli argomenti che tocca sono quelli legati ai sentimenti e le emozioni umane e non sono scritti in un linguaggio specialistico, semmai tutt'altro: la mitezza, la tenerezza, la depressione, la nostalgia, la speranza, l'importanza delle parole per non ferire. A proposito di quest'ultima tematica, si è rivolto in particolare a genitori e insegnanti con le Le parole che ci salvano

Associare la casistica comune, quella che ha avuto modo di conoscere nell'esercizio della professione, ai casi più o meno noti di fragilità di poetesse e poeti, scrittori e scrittrici, rientra nella sua cifra stilistica. Borgna si concentra spesso sul legame fra creazione artistica e follia, con occhio clinico, certo, ma con stupore insieme. 

Per lui le malattie mentali si curano innanzitutto con l'ascolto, la comprensione vera e il dialogo. Fautore della scienza fenomenologica, ogni evento va studiato partendo dalla fonte, dalle origini che la determinano, dalle cause. Ai pazienti bisogna prima stare accanto, guardarli negli occhi per scrutarne l'anima, indagarne i recessi. Prima viene la persona, dopo la malattia di cui soffre. 

Nelle interviste ha denunciato spesso lo stato in cui versa la psichiatria, con la messa in evidenza delle complesse lacerazioni che la rendono una disciplina arida, relegata a un sapere preconfezionato. 

L'ultimo libro, intenso come al solito seppur breve, è appena uscito per Einaudi, l'editore che lo ha pubblicato finora oltre a Feltrinelli, e approfondisce una tematica per l'appunto femminile, ovvero quella del suicidio, lasciando sullo sfondo, per sua ammissione, l'atto perpetrato dagli uomini. Il titolo è L'ora che non ha più sorelle, riprendendo un verso di uno dei più grandi poeti del Novecento, Paul Celan, che sceglieva di morire nelle acque della Senna. 

Scrive Borgna nell'introduzione: 

«L'ora che non ha più sorelle è l'ultima ora della vita. Quando l'ora del vivere diviene l'ora del morire. […] Ci sono suicidi che nascono da condizioni di vita depressiva e suicidi che nascono da condizioni di vita non patologiche».

E ancora: 

«Nella donna le emozioni si modulano e si modificano in una stretta correlazione tematica con l'ambiente in cui si vive. Sono emozioni nobili e altere, liquide e sensibili all'accoglienza, o al rifiuto, da parte degli altri».

Analizza i casi di Simone Weil, Antonia Pozzi (che ama in particolare) Virginia Woolf, Amelia Rosselli, scava nelle loro parole per osservare e far emergere la bruciante disperazione e fa lo stesso con Margherita, Emilia, Stefania, sue anonime pazienti. Ma c'è spazio per le angosce e i tormenti interiori di Cesare Pavese (col quale non c'è assonanza) e Leopardi. I loro orizzonti, gli orizzonti di tutti loro, sono il motore propulsore del libro e del pensiero di Eugenio Borgna di cui, in questi tempi complicati e frenetici, dove siamo esseri socievoli e "social" più di nome che di fatto, c'è un gran bisogno.









30 novembre 2024

"Qualcosa per il dolore", (su Solo Libri

Ho scritto di nuovo, su Solo Libri, di Gerald Murnane, scrittore australiano considerato dai bookmakers tra i probabili vincitori del Premio Nobel per la Letteratura. 

Dopo le Le pianure stavolta:

Qualcosa per il dolore. Memorie dal mondo dell'ippica



 Foto tratta dal sito Ippodromi Snai. 

23 novembre 2024

L'empatia e la lettura di romanzi





Si riprende oggi il filo del discorso sull'empatia. Un concetto che ha avuto i suoi percorsi anche tormentati. E lo si è visto in un articolo precedente a proposito della filosofa e mistica tedesca Edith Stein

Può la lettura di romanzi influire o rafforzare  un sentimento o una condizione dell'animo umano, come l'empatia? 

Attingendo alla storia della cultura ci prova nel 2010 la studiosa americana Lynn Hunt, con il saggio intitolato "La forza dell'empatia", nella traduzione di Paola Marangon, edito da Laterza. 

Partendo dal tema dei diritti umani (il sotto titolo infatti è "Una storia dei diritti dell'uomo") con sullo sfondo lenti ma radicali cambiamenti intervenuti a livello di senso comune, inteso come collettore di nuovi modi di sentire individuali, Lynn Hunt si domanda se sia del tutto casuale la pubblicazione dei tre più grandi romanzi "psicologici" del Settecento - Pamela (1740) e Clarissa (1747-1748) di Richardson e Giulia (1761) di Rousseau - nel periodo immediatamente precedente la comparsa del concetto di "diritti dell'uomo". 

L'empatia non fu "inventata" nel XVIII secolo. La capacità di provare empatia è universale perché è radicata nella biologia; dipende dalla capacità, che ha basi biologiche, di comprendere la soggettività di altre persone e di immaginare che le loro esperienze intime siano simili alle nostre. I bambini che soffrono di autismo, per esempio, hanno gravi difficoltà a decodificare le espressioni del viso come manifestazioni di sentimenti, e in generale hanno problemi ad attribuire uno stato soggettivo alle altre persone. L'autismo, in breve, è caratterizzato dall'incapacità di immedesimarsi negli altri .

Di norma, l'empatia si apprende in giovane età. Anche se la biologia assicura una predisposizione essenziale, ogni cultura conferisce un'impronta specifica alla sua espressione. L'empatia si sviluppa soltanto attraverso l'interazione sociale; pertanto, le forme che tale interazione assume esercitano un'influenza significativa. Nel XVIII secolo i lettori di romanzi impararono ad ampliare la loro visione dell'empatia. Leggendo, l'immedesimazione nei personaggi oltrepassava i limiti sociali tradizionali tra nobili e comuni cittadini, tra padroni e servi, tra uomini e donne, forse persino tra adulti e bambini. Di conseguenza, finivano per vedere gli altri - persone che non conoscevano personalmente - come se stessi, come se provassero lo stesso tipo di emozioni interiori. Senza questo processo di apprendimento, l'«uguaglianza» non avrebbe potuto assumere un significato profondo, in particolare non avrebbe avuto alcuna conseguenza politica . Credere nell'uguaglianza delle anime in cielo non equivale a riconoscere pari diritti sulla terra. Prima del XVIII secolo i cristiani accettavano facilmente il primo postulato senza ammettere il secondo.

La capacità di identificarsi al di là delle divisioni sociali può essere stata acquisita in vari modi, non si può certo affermare che la lettura dei romanzi sia l'unico. Eppure la lettura dei romanzi sembra particolarmente attinente, in parte perché l'apogeo di un genere letterario specifico - il romanzo epistolare - coincide cronologicamente con la nascita dei diritti umani.

Nel romanzo epistolare non esiste un punto di vista esterno dell’autore, come accadrà invece, nel romanzo realista del XIX secolo, semplicemente perché tale punto di vista emerge dalle idee espresse nei carteggi dei personaggi. I “curatori” delle lettere, come si facevano chiamare Richardson e Rousseau, creavano un forte senso della realtà proprio perché la paternità dell’opera si nascondeva nello scambio di lettere. Ciò permise di accentuare la sensazione di immedesimazione, come se il personaggio fosse reale, non immaginario.

«Grazie alla sua stessa forma, il romanzo epistolare era in grado di dimostrare che l'individualità dipendeva dalle caratteristiche dell'«interiorità» (avere una vita interiore), perché i personaggi nelle lettere esprimono i loro sentimenti intimi. Il romanzo epistolare dimostrò inoltre che ogni “io” era dotato di tale interiorità (molti personaggi scrivono), e di conseguenza tutti gli “io” in un certo senso erano uguali, perché tutti possedevano allo stesso modo un'interiorità. Lo scambio di lettere trasforma la giovane serva Pamela, per esempio, in un modello di fiera autonomia e individualità, più che in uno stereotipo dell'oppresso. Come Pamela, Clarissa e Giulia finiscono per simboleggiare l'individualità stessa. I lettori diventano più consapevoli di avere la capacità di interiorizzare le loro esperienze, così come tutti gli altri individui».

Ovviamente non tutti provavano gli stessi sentimenti leggendo questo tipo di romanzi. C’è chi li definiva “tediosi” o “sentimentalisti”, per non parlare del clero cattolico che ne denunciava l’oscenità e la degradazione morale. Richardson e Rousseau rivendicarono il ruolo di “curatori” e non di “autori” per poter arginare il discredito associato ai loro romanzi.

Nonostante le preoccupazioni dei due autori sulla loro reputazione, alcuni critici cominciarono a capire le dinamiche create dai romanzi, richiamando l’attenzione sull’empatia. In questa nuova prospettiva, i romanzi agivano sui lettori in modo da renderli più sensibili agli altri, invece che isolarsi, e quindi la loro moralità veniva rafforzata. Uno dei più importanti difensori del romanzo fu Diderot, anch’egli romanziere. Diderot non usa le parole “empatia” o “identificazione” ma ne dà una spiegazione persuasiva dicendo che ci si immedesima nei personaggi, si provano gli stessi sentimenti dei protagonisti; in pratica ci si immedesima in qualcuno diverso da sé. Prende, quindi, consapevolezza del fatto che anche gli altri hanno un “io”. Ed è questo sentimento interiore importante per capire i diritti umani. Inoltre, Diderot comprende che l’effetto del romanzo è inconscio: “ci si sente spingere verso il bene con una impetuosità che non si conosceva. Si prova, di fronte all’ingiustizia, una rivolta che non saremmo in grado di spiegarci”. Questo è molto importante perché significa che il romanzo ha esercitato il suo effetto attraverso il processo di coinvolgimento della narrazione, non per mezzo di un moralismo esplicito.

Anche Thomas Jefferson era dello stesso avviso, in quanto sosteneva che leggendo Shakespeare, Sterne, Home si provava il desiderio di compiere atti caritatevoli, di atti di emulazione morale.

«Il magico incantesimo operato dal romanzo rivelava così di avere effetti di vasta portata. Anche se non lo affermarono espressamente, i sostenitori del romanzo compresero che scrittori come Richardson e Rousseau di fatto attiravano i loro lettori nella vita quotidiana come una sorta di esperienza religiosa sostitutiva. I lettori impararono a riconoscere l'intensità emotiva dell'ordinario e la capacità di persone simili a loro di creare autonomamente un mondo morale. I diritti umani nacquero dal terreno seminato con questi sentimenti. I diritti umani riuscirono a fiorire soltanto quando gli individui impararono a pensare agli altri come a loro pari, fondamentalmente uguali a loro. Impararono questa uguaglianza, almeno in parte, attraverso l'esperienza dell'identificazione con personaggi comuni che sembravano drammaticamente presenti e familiari, anche se in definitiva erano immaginari».

Nei tre romanzi epistolari esaminati da Hunt, per spiegare la sua teoria, le protagoniste sono tutte di sesso femminile e gli autori sono di sesso maschile. Le eroine erano più affascinanti perché la loro autonomia non poteva esplicarsi appieno in quel periodo storico. Le donne, come sappiamo, godevano di scarsi diritti giuridici separati dai padri o dai mariti. I lettori trovavano la ricerca di indipendenza da parte dell’eroina particolarmente struggente, perché capivano le restrizioni che tale tipo di donna inevitabilmente subiva. Nelle tre storie vediamo che solo in “Pamela” c’è un lieto fine perché la protagonista si sposerà con Mr B accettando l’implicita limitazione della propria libertà personale mentre Clarissa muore piuttosto che sposare l’uomo che l’ha violentata e Giulia sembra accettare la volontà del padre e rinuncia all’uomo che ama ma morirà nella scena finale.

Alcuni critici moderni hanno rilevato in queste storie elementi di masochismo o di martirio ma la forza dell’identificazione prendeva il sopravvento sugli elementi di critica in quanto i lettori e le lettrici non solo volevano salvare le eroine ma volevano essere come loro, persino come Clarissa e Giulia che alla fine muoiono. In ciascun romanzo tutto ruota intorno alla personalità della protagonista. Le azioni dei personaggi maschili servivano solo a dare risalto a questa volontà femminile. Immedesimandosi nelle protagoniste, i lettori imparavano che tutte le persone, e quindi anche le donne, aspiravano a una maggiore autonomia, e con l’immaginazione sperimentavano la fatica psicologica di questa “impresa” .

Nei romanzi del XVIII secolo si rifletteva un’inquietudine culturale più profonda legata all’autonomia. I filosofi illuministi erano convinti di aver compiuto un importante passo avanti in questo senso. Quando parlavano di libertà, intendevano autonomia individuale, che si trattasse della libertà di esprimere un’opinione o di praticare la religione che si voleva, o dell’indipendenza insegnata ai ragazzi se si seguivano i precetti indicati da Rousseau nella sua guida pedagogica, Emilio nel 1762. La narrativa illuminista sulla conquista dell’autonomia raggiunse il culmine nel 1784 con il saggio di Kant Che cos’è l’illuminismo? Per il filosofo tedesco l’illuminismo era l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Quindi, illuminismo per Kant significava autonomia intellettuale, capacità di pensare con la propria testa.

L’accento posto dall’illuminismo sull’autonomia individuale nacque dalla rivoluzione del pensiero politico del XVII secolo, avviata da Grozio e John Locke. I due filosofi avevano sostenuto che l’unico fondamento possibile dell’autorità politica legittima era l’uomo autonomo che stringe un patto sociale con altri suoi simili. Se l’autorità giustificata dal diritto divino, dalla Scrittura e dalla storia doveva essere sostituita da un contratto tra uomini autonomi, era necessario insegnare ai ragazzi a pensare con la propria testa. La pedagogia, sulla quale Locke e Rousseau lasciarono un’impronta profonda, spostò quindi l’accento dall’ubbidienza imposta attraverso le punizioni a un’attenta coltivazione della ragione come strumento preciso d’indipendenza .

Quindi è chiaro che per pensare e decidere da sé erano necessari cambiamenti psicologici oltre che politici e filosofici. Infatti Rousseau nel suo Emilio invitava le madri a costruire pareti psicologiche tra i loro figli e le pressioni sociali e politiche esterne.

I riformatori che si ispiravano all’Illuminismo volevano andare anche oltre la protezione del corpo o la recinzione dell’anima raccomandata da Rousseau. Essi miravano ad ampliare l’ambito di decisione individuale. Le leggi rivoluzionarie francesi sulla famiglia dimostrano quanto fosse reale la preoccupazione destata dai limiti imposti dall’indipendenza. Ad esempio, nel 1790 si abolì la primogenitura, che conferiva diritti ereditari speciali al primogenito maschio o ancora nello stesso anno l’Assemblea decretò che tutti i discendenti, maschi e femmine, avevano pari diritto all’eredità; nell’anno successivo i deputati ridussero la maggiore età da venticinque a ventun anni, dichiararono che gli adulti non potevano più essere soggetti all’autorità paterna e istituirono il divorzio per la prima volta nella storia francese, rendendolo accessibile sia agli uomini che alle donne .

Anche la Gran Bretagna e le sue colonie nordamericane si muovevano sulla stessa linea e il potere patriarcale vecchio stile subì un declino. Dal Robison Crusoe di Daniel Defoe (1719) all’Autobiografia di Benjamin Franklin (scritta tra il 1771 e il 1788), gli autori inglesi e americani esaltarono l’indipendenza come virtù cardinale. Il romanzo di Defoe sul marinaio naufragato fornì un vademecum su come un uomo poteva imparare a provvedere a se stesso .

Questi cambiamenti ci furono anche nella vita reale. I giovani pretendevano sempre di più di compiere le proprie scelte matrimoniali, anche se le famiglie esercitavano ancora grandi pressioni su di loro, come si poteva notare in qualsiasi romanzo la cui trama riguardasse proprio quest’aspetto (per esempio il già citato Clarissa). Cambiarono anche i metodi adottati per allevare i figli. Gli inglesi, ad esempio, smisero di fasciare i neonati prima dei francesi ma continuarono a picchiare i ragazzi nelle scuole più a lungo. Negli anni Cinquanta del Settecento le famiglie aristocratiche inglesi avevano smesso di utilizzare le redinelle di sicurezza per guidare i primi passi dei figli, li svezzavano prima e, poiché non erano più fasciati, i bambini imparavano prima ad usare il gabinetto, tutti segni della maggiore importanza data all’indipendenza. 



Lynn Hunt, foto tratta dal sito dell'Università della California, Los Angeles (Ucla) 



18 novembre 2024

"Le pianure" di Gerald Murnane

Scrivo di pianure, su Solo Libri. Pianure non solo in senso fisico, bensì anche come luogo interiore.

Per chi, come me, in pianura ci è nato
Per chi ci ha vissuto
Per chi ci vive ancora.
E per tutti gli altri. Soprattutto per gli altri.


Link all'articolo: Le pianure






Gerald Murnane, foto dal web

13 novembre 2024

"Un libro che divorerei" di Giuseppe Pontiggia (su Solibri)

Su Solo libri ho parlato della critica come genere letterario a partire dal libro che riunisce una selezione di pareri editoriali di Giuseppe Pontiggia, Un libro che divorerei , a cura di Daniela Marcheschi.


Link all'articolo: Un libro che divorerei





Giuseppe Pontiggia, foto dal web.








10 novembre 2024

Il reale e il racconto del reale: "Disclaimer"

 Le serie tv non sono tutte di qualità e nella loro abbondanza capita di vedere di tutto. Ormai hanno preso piede le piattaforme a pagamento, ma non è detto che il pagare sia direttamente proporzionale al servizio reso. Il problema è anche un altro, e cioè che il servizio pubblico per primo dovrebbe essere di qualità, ma il discorso si allunga e si complica. Meglio attenersi all'arte. Se entri nel mondo dell'artista perché ha detto o fatto qualcosa di universale, valido per tutti e tutto, accade che quell'esperienza non è la tua ma è come se lo fosse. Ed è bello viverla. Tutto qui, e non è poco. 
Dunque, è pieno il mondo di prodotti poco significativi, soprattutto se si adotta un giudizio critico obbiettivo. Poche sono le serie tv davvero valide sul mercato. Molte sono di puro intrattenimento o agiscono sulle emozioni degli spettatori senza apportare nulla di nuovo, così come succede nei libri.

Su Apple tv è in onda una mini serie in sette puntate. Non un capolavoro, ma interessante per l'argomento e come viene affrontato. Diversi aspetti di trama sono esili. Un po' thriller ad alta tensione, un po' melodramma: Disclaimer. Poco originale è il sotto titolo italiano: La vita perfetta. Come per tante altre serie in circolazione, è tratta da un romanzo (scritto da Renée Knight).
Cos'è il disclaimer? È un termine inglese che indica la postilla legale con cui si mettono le mani avanti, per così dire, con l'intento di escludersi da una certa responsabilità. 
Si utilizza anche nella narrativa: "Ogni fatto o atto descritto è opera di fantasia... ". 

Nella serie tv in questione la fantasia non è solo il dato ovvio, come per tutti i prodotti di fiction, ma è come fosse un personaggio al pari degli altri. 

Sono tutti grandi nomi, a cominciare dal regista, Alfonso Cuarón, pluripremiato vincitore di premi Oscar, il primo ad averlo ottenuto nella storia del suo Paese, il Messico, nonché di altri riconoscimenti prestigiosi come Il leone d'oro e il David di Donatello. 
Protagonista Cate Blanchett nei panni di una affermata documentarista londinese, sposata e madre di un adolescente, che un giorno riceve per posta un libro intitolato Un perfetto sconosciuto e leggendolo le sembra di rivedersi e di ripercorrere una vecchia storia che la riguarda. Ad averglielo spedito è un anziano vedovo (interpretato da Kevin Kline, il co-protagonista) sebbene lo abbia scritto non lui ma la moglie quando era in vita. I dettagli della storia li apprendiamo da una voce narrante fuori campo. Da quel momento la vita della protagonista della serie tv e al contempo dell'opera romanzesca – una meta narrazione e nemmeno l'unica, a dire il vero – cade a pezzi. Pezzi che cadono lentamente, proprio come lo spettatore quando riceve le informazioni, fino allo svelamento ultimo.

Come agisce la nostra immaginazione sulla realtà, e quanto? Dov'è inizia l'una e finisce l'altra? Questi gli interrogativi che si palesano di fronte allo schermo. 
Perché un conto è il reale, sembrano dirci gli autori di Disclaimer, un conto è come lo raccontiamo a noi stessi o come ce lo raccontano gli altri.






6 novembre 2024

"Finché Marte non ci separi"

 Ho parlato su Sololibri di un saggio che affronta un argomento spesso trascurato, ovvero i viaggi spaziali a scopo commerciale a opera di pochi miliardari e la colonizzazione di un altro pianeta: Marte.

Link all'articolo: Finché Marte non ci separi








25 ottobre 2024

Edith Stein e l'empatia: da problema a stile di vita

 



Si sentono spesso termini che, soprattutto nei social, fanno presa sugli utenti. Non sempre però se ne intuisce la loro portata. Resilienza, talento, empatia, per citarne alcuni. Cosa sono veramente? Sono risorse o barriere? L'empatia, per esempio, appare sempre più necessaria in un mondo dove gli egoismi o anche solo l'isolamento - com'e avvenuto a seguito della pandemia - hanno portato a dei cambi di prospettiva nelle vite di molte persone. Può essere utile capire qualcosa in più grazie a chi, all'empatia, ha dedicato l'esistenza e se ha dedicato l'esistenza ci sarà stata ragione per dare una ragione a noi. 

La parola 'empatia' deriva dal greco εμπαθεία (empatéia, a sua volta composta da en- "dentro", e pathos, "sofferenza o sentimento"), che veniva usata per indicare il rapporto emozionale di partecipazione che legava l'autore-cantore al suo pubblico. Il termine "empatia" è stato equiparato a quello tedesco Einfühlung o per meglio dire, traduce il termine tedesco. Coniato, quest'ultimo, dal filosofo Robert Vischer (1847-1933) e, solo più tardi, tradotto in inglese come empathy. Vischer ne ha anche definito per la prima volta il significato specifico di simpatia estetica. In pratica il sentimento, non altrimenti definibile, che si prova di fronte ad un'opera d'arte. Già suo padre Friedrich Theodor Vischer aveva usato il termine evocativo einfühlen per lo studio dell'architettura applicato secondo i principi dell'Idealismo.

Nelle scienze umane, l'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale. Fondamentali, in questo contesto, sia gli studi pionieristici di Darwin sulle emozioni e sulla comunicazione mimica delle emozioni, sia gli studi recenti sui neuroni specchio scoperti da Giacomo Rizzolatti, scopritore dei neuroni-specchio, che confermano che l'empatia non nasce da uno sforzo intellettuale, ma è bensì parte del corredo genetico della specie.

Nel linguaggio corrente, l'empatia è l'attitudine a offrire la propria attenzione per un'altra persona, mettendo da parte le preoccupazioni e i pensieri personali. La qualità della relazione si basa sull'ascolto non valutativo e si concentra sulla comprensione dei sentimenti e bisogni fondamentali dell'altro.

Le innumerevoli definizioni che sull’empatia si sono succedute nel corso degli anni e che l’hanno collocata ora nell’ambito della dimensione prettamente affettiva, ora in quella prettamente cognitiva, ne hanno ridotto il significato profondo. Molti sono stati i ricercatori che si sono interessati a questo tema con l’intento di sottolinearne la complessità che ne caratterizza l’anima stessa. Proprio in questa prospettiva si colloca la definizione di empatia della scienziata tedesca Bischof-Kohler, secondo la quale l’empatia è la capacità di comprendere l’altro attraverso la condivisione diretta e immediata del suo stato affettivo, dove malgrado tale condivisione, il soggetto che empatizza conserva la coscienza che tale stato affettivo è lo stato affettivo dell’altro. Questo, in altri termini, sta a significare che considerare il processo empatico un’esperienza emotiva di condivisione, mediato dalla dimensione cognitiva, diventa garanzia a supporto della natura multidimensionale dell’empatia stessa. 

L'empatia è stata più volte analizzata anche da filosofi come Max Scheler, Sigmund Freud o Carl Rogers.  Una sola però ha dedicato la sua vita al tema a partire dalla sua tesi di laurea che è diventata poi un'opera di riferimento imprescindibile. Si tratta di Edith Stein. Nata a Breslavia nella bassa Slesia (allora in Germania) il 12 ottobre 1891; era l’ultima di undici fratelli di una coppia di commercianti di origini ebraiche. Il giorno in cui nacque era anche quello dedicato alla massima festa ebraica, lo Yom Kippur, giorno della riconciliazione. Il padre, Sigfrid Stein, commerciante di legname, muore improvvisamente durante un viaggio d’affari, quando Edith ha solo ventuno mesi. È allora la madre, Auguste Stein Courant, a doversi fare carico da sola di tutta la famiglia e mandare avanti anche l’azienda di commercio di legnami, ereditata dal marito. Auguste Stein educa i figli ad un comportamento responsabile ed operoso, all’altruismo, ad uno stile di vita sobrio e parsimonioso.

Edith si convertì al cattolicesimo dopo un periodo di ateismo iniziato ai tempi dell'adolescenza. Entrò nel monastero carmelitano a Colonia nel 1934 e prese il nome di Teresa Benedetta della Croce.  Venne arrestata nei Paesi Bassi dai nazisti e rinchiusa nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau dove trovò la morte. Nel 1998 papa Giovanni Paolo II l'ha proclamata santa e l'anno successivo l'ha dichiarata compatrona d'Europa.

L’interesse principale per Edith Stein è l’io, centro della persona, e questo interesse risale al tempo, appunto, della sua dissertazione accademica, discussa nel 1916 (relatore il grande filosofo Edmund Husserl), intitolata Sul problema dell’empatia. Già dalle prime pagine di questo lavoro la ricerca appare focalizzata sull’essenza dell’empatia, verso cui ci indirizza "il metodo della riduzione fenomenologica" (Bettinelli). 

Sostiene Stein: "si può dubitare se ciò che io vedo esiste prima di me. È possibile ingannarsi […] Ma ciò che non posso escludere, ciò che non è soggetto a dubbio, è la mia esperienza della cosa insieme col correlato fenomeno. Dunque l’esperienza che io ho di me è legata anche alla conoscenza dell’altro che, a sua volta, mi consente di afferrare “strati inferiori” che io stesso non conosco. In questo senso l’empatia è un sentimento calato nel nostro esperire vivente rivolto verso gli altri e, dunque, si colloca come ponte tra le due rive del fiume della vita personale e collettiva; benché infatti l’interesse primario sia rivolto alla persona nella sua unicità, il valore della persona risalta nell’incontro con gli altri e nell’interazione dinamica che culmina appunto nel momento empatico: luogo privilegiato di ricerca della verità".

Così la ricerca sull’empatia non si circoscrive al limite angusto del singolo elemento psicologico, ma con essa si gioca una sfida più grande, afferma Stein, ovvero, prendere coscienza dell’alterità e individuare il rapporto fra elemento soggettivo e oggettivo.

L’empatia costituì per Edith Stein un tema dominante fin dagli anni di studio a Breslavia dei quali ricorda come Husserl, nel corso su Natura e Spirito, avesse messo in luce il fatto che un mondo oggettivo esterno può essere sperimentato solo da diversi soggetti in rapporto fra loro, cioè da una molteplicità di individui conoscenti in rapporto di scambievole comprensione, per cui l’esperienza di altri individui sarebbe presupposta alla conoscenza del mondo esterno . Che l’io e l’altro vivano un rapporto di scambievole conoscenza senza che nessuno dei due risulti annullato o subordinato, ma invece ciascuno sia in certo modo avviato ad essere se stesso attraverso l’esperienza dell’alterità, implica però anche il forte rischio dell’invasione di stereotipi culturali, di convenzioni sociali, della natura, come anche il rischio di perdersi o trasfigurarsi in entità oggettive, in ideali sovraindividuali o, ancora, quello di voler essere uno e di ricostruire una mitica fusione amorosa del due o dei molti. In questi rischi c’è però il germe di ciò che salva: l’empatia, che Edith Stein ha liberato dallo stereotipo romantico ed estetizzante, mettendola con audacia nello stesso luogo in cui, per il maestro Husserl si costituisce il rapporto con il mondo oggettivo. L’empatia è l’atto paradossale attraverso cui la realtà di qualcos'altro, "di ciò che non siamo (…) diventa elemento dell’esperienza intima: quella del sentire insieme, del desiderio dell’altra, dell’altro, che produce ampliamento ed espansione verso ciò che è oltre, imprevisto" (Butterelli-Boella). Dell’empatia si possono vivere differenti esperienze: nel linguaggio, nelle relazioni amorose o amicali, tra insegnante ed allievo, nella narrazione e lettura, in tutta la vasta dimensione in cui nella nostra vita irrompe con forza l’alterità; "ed è proprio in questo scambio reciproco di esperienze e di relazioni umane che si comprende in modo pieno l’umanità. Senza la possibilità del confronto e del rapporto con l’altro non si riesce neppure a guardare nella profondità di se stessi" (Brezzi). L’apertura agli altri è condizione per la fondazione di una vera comunità umana, che si può realizzare attraverso l’esperienza corporea dell’espressione teatrale con dei piccoli allievi, oppure con il vissuto della compassione che, per la filosofa contemporanea Martha Nussbaum, è il punto di partenza della nostra umanità .

L'empatizzare è molto distinto anche dal cosentire. In questo caso, Stein sceglie l'esempio della gioia di uno studente per aver superato un esame: nel cosentire mi immetto nell'avvenimento del buon esito dell'esame, e quindi in quello per cui egli (cioè il compagno di studi) gioisce"; io gioisco con lui per questo evento. Empatia al contrario significa percepire la stessa gioia che lo studente ha in sé: "Nell'empatizzare, colgo la sua gioia e ciò facendo mi traspongo in essa" . 

Allo stesso modo, l'empatizzare (Einfühlen) e l'unisentire (Einsfühlen) sono due atti diversi. Quando gioisco di uno stesso avvenimento o di uno stesso oggetto di cui un altro gode, questo mi può condurre al fatto che non più solo io e lui, ma noi godiamo, noi ci uni-sentiamo nella gioia dello stesso oggetto. Ma anche questo è un processo nel quale l'atto conoscitivo è indirizzato all'oggetto comune della gioia, ma non alla stessa gioia dell'altro. Quindi "non è mediante l'unisentire che facciamo esperienza vitale degli altri, ma mediante l'empatizzare", in quanto solo "mediante l'empatia l'unisentire e l'arricchimento della propria esperienza vitale diviene possibile" o può divenirlo. 

Nel caso dell'empatia, afferma Stein, abbiamo a che fare con una specie di atti di esperienza vitale sui generis: l'empatia, che abbiamo cercato di prendere in considerazione e di descrivere, è, in generale, "esperienza della coscienza estranea" . Dunque affronta la questione di come si sviluppa un tale empatizzare in "una coscienza estranea". Per questo premette alcune definizioni: secondo la teoria dell'imitazione (Nachahmungtheorie), per esempio, elaborata da Theodor Lipps, in me si realizza l'esperienza della vita psichica estranea, mediante la quale imito ("non esteriormente, ma “interiormente”) l'azione di un altro o la sua reazione ad una corrispondente sopravvenienza (nell'esempio portato, l’ "atto visto fare" da lui), partecipando così al vissuto interiore in tal modo espresso. Allora io giungo in questo dato modo, non al fenomeno del vissuto altrui, ma ad una mia propria esperienza, che l'azione vista fare dall'altro, risveglia in me.

Come l'imitazione, così anche l'associazione ad essa collegata, non conduce realmente a "cogliere la vita psichica altrui"; in questo caso si escludono le sensazioni che, in seguito ad una certa azione, io stesso ho od ho avuto intorno alle sensazioni dell'altro. Nel caso esemplare proposto da Edith: "Vedo qualcuno battere un piede rabbiosamente; mi viene in mente come io stessa ho battuto il piede con rabbia; nello stesso tempo mi si rappresenta la rabbia che mi aveva allora colto, per cui dico a me stessa: l'altro è ora arrabbiato come lo sono stata io" . In questo modo ho ricevuto in rappresentazione non il percepire dell'altro, ma la mia propria percezione richiamata alla memoria, e di qui proiettata nell'altro. 

Lo stesso vale per la inferenza per analogia (Analogieschluß), che coglie l'esperienza psichica dell'altro, semplicemente sapendo che di norma alcuni modi comportamentali esteriori determinano altrettante sensazioni interiori. Sebbene questo nel singolo caso possa colpire veramente, si deve però pensare secondo la studiosa che: "L'inferenza per analogia può prendere il posto dell'empatia che forse non ha luogo, e non comporta l'acquisizione di un'esperienza, ma realizza una conoscenza più o meno attendibile del vissuto estraneo".

L'empatia, così come Stein la intende, è certamente distinguibile rispetto ad atti conoscitivi simili, ma non sufficientemente identificabile in definizioni positive. In che modo avvenga l'empatia, si può infatti solo descrivere e le parole che la descrivono sono come delle finestre, attraverso cui siamo costretti a sbirciare la realtà significata. Possiamo intravedere l'empatia che avviene in un altro: un esempio evidente è rappresentato dalla stessa Edith Stein, che secondo Waltraud Herbstrith, carmelitana tedesca, era per natura un "genio dell'amicizia”, ma possiamo anche intravedere, nella propria coscienza, la capacità di potersi empatizzare in un dolore così come nella gioia. Forse è necessaria proprio l'empatia, per poter comprendere l'empatia. Posso effettivamente, come afferma la stessa Edith, "anche empatizzare delle empatie; cioè, tra gli atti di un altro, che colgo nell'empatizzare, possono esserci anche atti di empatia, nei quali uno coglie gli atti di un altro. Questo 'altro' può essere una terza persona ­ oppure io stesso" .

Si mostra, nell'analisi di Edith Stein, che l'oggetto conoscitivo dell'atto empatico, l’esperienza vitale degli altri, può avere contenuti molto diversi. In modo corrispondente alla composizione dell'essere umano come una unità di corpo, anima e spirito, si può trattare di una esperienza vitale dell'altro corporale, psichica o spirituale. Edith Stein dedica perciò due dei tre capitoli della sua opera a una riflessione molto estesa sulla costituzione ontologica dell'essere umano, che lei considera come "individuo psicofisico" (capitolo III) e successivamente come "persona spirituale" (capitolo IV), per giungere in questo modo a descrizioni ancora più dettagliate dell'atto empatico. Così ella parla ad esempio della "presentificazione empatizzante" in relazione all'esperienza vitale corporale dell'altro (un po' come il soffrire di dolori fisici), della "empatia sensoriale" oppure della "endosensazione" (nei suoi sentimenti e sensazioni psichiche, come pressapoco la gioia o la paura) di "comprensione post-vitale" o "coglimento empatizzante" del  mondo spirituale. 

Nel campo dell'esperienza vitale spirituale si apre al soggetto empatizzante "un nuovo regno di oggetti: il mondo dei valori": viene incontro cioè l'intero "mondo della storia e delle culture", dal quale un essere umano è plasmato e che egli stesso ­ in un certo modo continuamente  conforma, e che è appunto l'intero mondo dei valori, nei quali egli pensa, sente e opera. 

Viene incontro anche e soprattutto l'essere umano stesso nel suo valore peculiare. L'empatia conduce ad una sensazione di valore, nella quale ci è data la persona dell'altro e, scrive Stein: "Come negli atti propri originari dello spirito si costituisce la propria persona, così negli atti vissuti empaticamente si costituisce l'altra persona". È in definitiva lo stesso altro, che attraverso l'empatia viene percepito .

Stein non teme, in questo contesto ­ pur all'interno del linguaggio dell'analisi scientifica, ­ di parlare di questo atto dell'empatia come di un "atto di amore": nell'atto d'amore" si compie "un afferrare, ossia un intendere del valore della persona"; e conclude: "Noi non amiamo una persona perché fa il bene, il suo valore non consiste nel fatto che fa il bene (anche se il suo valore può rivelarsi in ciò), ma nel fatto che la persona stessa è pregevole e noi la amiamo per se stessa" .

L'empatia è possibile essenzialmente solo nel typos essere umano. Ma poiché questo typos è simile, almeno nel suo carattere corporale, ad altri esseri, posso empatizzare in un certo grado anche nel dolore di un animale. "Quanto più tuttavia ci allontaniamo dal typos essere umano, tanto minore diviene la quantità di possibilità di attuazione" dell'atto empatico. E poiché nel campo dello spirito "ogni singola persona è per se stessa un typos, potrò d'altra parte empatizzare in un'altra persona, solo nella misura in cui io stesso sono divenuta persona: "Solo chi si sperimenta come persona, come totalità che possiede un senso, può capire altre persone"; se no "ci rinchiudiamo nella prigione della nostra particolarità; gli altri ci diventano un enigma oppure, ancora peggio, li modelliamo a nostra immagine e distorciamo così la verità". 

Quanto più un essere umano ha trovato il proprio "se stesso", tanto più può diventare un "maestro di comprensione" o, come dice, Edith Stein: "un maestro dell'amore".

Mediante l'empatia percepisco l'altra persona nel suo valore peculiare e con il mondo di valori che essa si è fatto proprio. Ma questo ha anche come conseguenza una retroazione su di me: empatizzando nell'altro, si costituisce in me, soggetto empatizzante, un nuovo Io. "Ogni coglimento di altre persone diverse", secondo Edith, "può divenire fondamento di una comparazione di valore"; l'essere umano, che è stato percepito nell'empatia ­ nel suo valore e con i suoi valori ­ ci chiarisce "quello che noi siamo in più o in meno degli altri". Allora, "empatizzando, noi ci imbattiamo in campi di valori a noi preclusi, ci rendiamo coscienti di un proprio difetto o disvalore"; in questo modo, nella comprensione dell'altro, può giungere a sviluppo, "quanto in noi sonnecchia". ­ 

Giovanni della Croce (1542-1591), che due decenni dopo con le sue opere, tanto influsso avrà su Edith, ha forse voluto significare la stessa esperienza quando ha scritto: "L'amore rende simili l'amante e l'amato" ­ un "principio fundamental indiscutible" per il mistico spagnolo, determinando l'intero suo pensiero.

Ritroviamo qui del tutto la situazione personale dell'autrice al tempo in cui lavorava alla sua dissertazione quando, come esempio per questa esperienza vitale, nota sobriamente: "Così empatizzando, riesco a comprendere il tipo dell'homo religiosus, a me essenzialmente estraneo, e lo capisco, sebbene quanto di nuovo là mi si presenti, mi rimane sempre incompleto".

Vale la pena evidenziare che la filosofa era ancora lontana dalla fede quando termina il suo lavoro giovanile con una provocazione interessante che vale certamente la pena raccogliere. Essendo la persona anche spirito, a questo livello, dunque, con chi può empatizzare? Solo con altre persone?

Se dunque l'empatia ha una componente spirituale anche lontani dalla fede, perché non considerarla come stile di vita. E se fosse una pratica culturale? 




Bibliografia


Bettinelli C., Il pensiero di Edith Stein, Vita e pensiero, Milano, 1976.

Bella L. - Buttarelli A., Per amore di altro. L’empatia a partire da Edith Stein, Edizioni Cortina, Milano 2000, p.8-9.

Brezzi F. (a cura di) Amore ed empatia, Franco Angeli, Milano, 2003, p. 50.

Enciclopedia della Filosofia e delle scienze umane, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1996.

Herbstrith W., Edith Stein. Vita e testimonianze, Città Nuova, Roma, 1999.

Nussbaum M. , Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone, Il Mulino, Bologna, 2002.

Stein E. , Sul problema dell’empatia, a cura di Elio Costantini, Erika Schulze Costantini, ed. Studium, Roma, 2012.



12 ottobre 2024

Tutta l'umanità del non-umano


 



«Sì, Flush era degno di Madamigella Barret; Madamigella Barret era degna di Flush. Il sacrificio era grave; ma doveva pur compiersi. Così fu che un bel giorno, con tutta probabilità ai primordi dell'estate del 1842, si poteva vedere una singolare coppia incamminarsi giù per Wimpole Street - una signora anziana piccoletta, rotondetta, dal lucido viso rubicondo e dai lucidi capelli d'argento, la quale vestiva dimesso e conduceva al guinzaglio un giovane Cocker Spaniel dal pelo dorato, tutto brio, tutto vivacità, e assai ben allevato. Giunti quasi in fondo alla via sostarono finalmente al n. 50. Non senza trepidazione, Madamigella Mitford tirò il campanello».

La citazione descrive la scena che prelude a un cambiamento di vita e di padrona per un cagnolino di nobili origini, razza cocker spaniel, protagonista di un breve testo che Virginia Woolf scrisse nel 1933: Flush. Biografia di un cane. Diverse le edizioni italiane. Qui è nella versione tradotta da Alessandra Scalero per La tartaruga, 2012.

Narrato dal punto di vista dell'animale la scrittrice inglese sonda in modo ironico e solo in apparenza leggero, le vicende personali della poetessa Elizabeth Barrett Browning. Costretta a casa per una malattia,  riceve una visita che cambierà le sorti di tutti.  Da quel momento si instaurerà un rapporto di simbiosi fra lei e il suo nuovo amico: Flush. La compagnia fedele del cane l'accompagnerà nei momenti allegri e spensierati e in quelli difficili. Dalla conoscenza e matrimonio (in gran segreto) col poeta Robert Browning, al viaggio in Italia tra Firenze e Pisa e la nascita di un figlio. 

Ponendosi nella prospettiva inedita non umana, Woolf mostra sentimenti umani. La devozione, la rabbia, la gelosia - quando Flush per esempio ritorna ad essere solo un cane in seguito all'amore della padrona verso l'uomo - e il lettore non può che venirne trascinato e coinvolto. La padrona invece, riuscirà ad affrontare una banda di malviventi che rapisce Flush a fini di estorsione. Un escomatage narrativo che mette in evidenza il contrasto tra le umide, buie vie della Londra vittoriana e le contraddizioni della stessa, con il sole delle due città d'arte italiane del viaggio. Viaggio inteso non solo in senso fisico ma anche dell'anima e dei sentimenti. 

L'idea del libro venne all'autrice, per sua stessa ammissione,  quando conobbe i dettagli della storia d'amore fra Elisabeth Barrett, di cui era fiera estimatrice, e Robert Browning, appunto, e ne rimase colpita. 

Virginia Woolf curiosamente amava identificarsi con varie specie animali e lo faceva spesso per comunicare con gli altri, per descrivere il suo essere ed esserci nel mondo e nelle cose. 

Flush è un'opera ingiustamente considerata fra le minori nella produzione woolfiana ma è difficile forse, per quello che oggi abbiamo, operare in termini di classificazione. In ogni caso, merita anch'essa la lettura. 





29 settembre 2024

La superficie

A scuola capitava che qualche insegnante, soprattutto d'italiano, portasse dei giornali per analizzarli insieme. Ricordo che la maestra delle elementari ci faceva ritagliare e incollare su appositi quadernoni le notizie sulla nostra città e lì, in quei quadernoni, sono rimaste. Ricordo anche che alcuni compagni un quotidiano non l'avevano mai visto. E mi stupivo di loro come loro si stupivano di me o di qualcun altro. A casa mia era impensabile non ascoltare il telegiornale all'ora di cena, per esempio, o avere almeno il quotidiano locale girare nelle stanze. Perché, tu guardi il telegiornale, mi disse una volta stupito un compagno. Non era nemmeno una domanda. Era una chiara affermazione, con uno sguardo che non faceva presagire nulla di buono, per me. La strana insomma ero io. 

Ora viviamo nell'informazione. Tutti ne abbiamo accesso. Si è sempre connessi, sappiamo o crediamo di sapere. Cose, persone, sembrano vicino ma non lo sono. Gli utenti dei social hanno sentimenti, esperienze, pregi, difetti, eppure anche no. Manca qualcosa. Quello di stamattina già non è più di stasera. Nemmeno noi. Fino a scomparire nel buio della notte. Niente si approfondisce. Tutto rimane in superficie.

La superficie è crosta sui muri, cade giù prima o poi, effimera, come il più facile degli intrattenimenti, come raggiungere la felicità a tutti i costi o un qualsiasi post. Pure questo. 

18 settembre 2024

Against all odds - Contro ogni previsione


Meglio non fare previsioni, si potrebbe sbagliare. Oppure no. Nonostante tutto, qualcosa si avvera. A dispetto della storia, delle circostanze, del destino che non lascia molte vie d'uscita. 

Una mostra temporanea che ho avuto modo di visitare, aperta fino all’8 dicembre 2024, porta il titolo di Against All Odds, Historical Women and New Algorithim. Ovvero: Contro ogni previsione – Donne storiche e nuovi algoritmi. Non era previsto che la vedessi, proprio perché temporanea. Anche questo è andato contro ogni previsione. Tuttavia, era prevista la mia visita nella città e nel museo che la ospita: Copenaghen e il museo è l’Smk, acronimo di Statens Museum for Kunst, la Galleria d’arte più importante della Danimarca, con un’ampia rassegna di arte danese e nordica, europea e internazionale. 

Oggetto della riflessione far conoscere ventiquattro artiste, tutte donne, provenienti dall’area del Nord Europa che, contro ogni previsione, ebbero successo negli anni 1870-1910. Nonostante questo, molte furono ben presto dimenticate. Ragioni storiche e culturali, meno accesso all’arte rispetto ai colleghi maschi, meno opportunità espositive non hanno risparmiato i Paesi scandinavi. Anzi, le artiste dovettero spostarsi nel resto d’Europa creando un vero e proprio movimento transnazionale. L’allestimento è composto da dipinti e sculture e, nella parte conclusiva, da installazioni interattive dell'artista contemporanea panamense Itzel Yard, in arte IX Shells, al suo esordio in un grande palco, sull'intelligenza artificiale e come questa può essere utilizzata per la comunicazione e la comprensione degli eventi. Che il progresso è fra noi lo vediamo tutti i giorni dagli algoritmi. Ma gli algoritmi cambiano vorticosamente e l'intelligenza artificiale ha sfondato in breve tempo. Le opere come quelle esposte nella mostra propongono, oltre al "messaggio" da lasciare all'utente, anche un diverso modo di fruizione dell'arte. 

Siamo abituati ad ammirare paesaggi e ritratti realizzati da artisti uomini. La collezione dimostra che non è così o non è così che le cose dovevano andare forse, ma bisogna ri-partire. Dal passato, dal futuro già presente. 

Qui sotto alcuni scatti. 

Il ritratto del pittore Munch da giovane (1889) solo per fare qualche esempio, e l’autrice è la norvegese Asta Nøreggaard



Quest’altro invece è della finlandese Helene Schjerfbeck, "In cammino verso la chiesa", 1895-1900



Una scultura della danese Anne Marie Carl-Nielsen, "Testa di serpente", 1903-1905                                                              



Il grande pannello con le artiste e i loro    spostamenti. Dalla grafica emergono i  legami  e le interconnessioni. Vere e proprie onde di  energia e talento. 


   


IX Shells e la sua arte. 
(Foto tratta dal sito del museo)



L'atrio del museo








15 settembre 2024

I diari di Sylvia Plath

 


I Diari di Sylvia Plath sono da leggere per la loro intensità, e per quello sguardo particolare sulle cose che va oltre le cose stesse. Così come i diari di Virginia Woolf, anch'essi pubblicati, o quelli di Cesare Pavese: tutti scrittori, fra l'altro, accomunati da una scelta estrema. È sufficiente la citazione qui sotto, che ricorda in un certo senso sia Woolf che Pavese con Il mestiere di vivere, per intuirne la potenza espressiva:

"Il mestiere di scrivere. Lo scrittore fabbrica illusioni per l'uomo comune - e si ammanta di mistero: a nessuno piace pensare che le proprie emozioni possano essere usate o suscitate da abili letterati di professione. A nessuno piace pensare: questo tizio è capace di guardarmi dentro e di frugarmi l'anima per far soldi. Così, quando gli chiedono come gli vengano le idee, lo scrittore risponde: «Mi sdraio sul divano e Dio mi parla. E' l'ispirazione». E fa contenti tutti". 

In Italia i Diari sono editi da Adelphi nella traduzione di Simona Fefè. Leggere diari, e scriverli anche, può aiutare l'introspezione, a guardarsi dentro con sincerità. A trovare risposte. Ad agire di scarto. Le linee temporali di Sylvia Plath ci conducono dove mai ti aspetteresti. Scrive pagine di resistenza e fatica. È fragile e tenace, malinconica e divertente. Una sensibilità fuori dal comune, la sua. Lirica anche quando descrive banali attività quotidiane. Una volta terminata la lettura vorresti soltanto averla di fronte, guardarla negli occhi, l'autrice di questo diario, e dopo abbracciarla. Ascoltare il silenzio insieme a lei. Poetessa e scrittrice che s'impegna, che studia, che lavora, ma anche donna che ama e vuole essere amata. Null'altro. E che vuole scrivere, e tanto. 

Nacque a Boston nel 1932. Anche lei, come Virginia Woolf e Cesare Pavese, ha scelto il suicidio per l'ultimo sentiero della vita. Dove c'è una fine però c'è un nuovo inizio. La immaginiamo, la immagino, nella quiete che desiderava e nell'arte che tanto amava, con alcune parole lasciate in un giorno in cui il freddo dell'inverno se n'era andato e una nuova stagione entrava:

"Con la mia ripresa e l'arrivo irruente e testardo della primavera sto vivendo la pace e la gioia profonda che non provavo più da quando ero piccolissima e sognavo poesie e favole in technicolor".



27 agosto 2024

Quella vita che è mestiere

 Non potevo, oggi, non ricordarlo. Dopotutto è a lui che devo il nome di questo blog: Cesare Pavese e al suo "Il Mestiere di vivere".

Il "Mestiere di Vivere" è tra le sue opere più conosciute e non è né un romanzo né una raccolta di poesie. E' il diario che lo scrittore ha tenuto tra il 1935 e il 1950 e interrotto nove giorni prima di decidere che nulla aveva più senso se non dandogli un senso preciso: la morte. Era il 27 agosto 1950. 

Il libro lo acquistai quasi alla cieca, per così dire. Lo vidi in vetrina in una libreria, a Cagliari, dove mi trovavo in vacanza dalla nonna materna. Mi colpii il titolo. Sapevo vagamente che era un diario. Anche io ne scrivevo e chissà pensavo fosse qualcosa di più alla mia portata. Erano gli anni Ottanta. Avevo quattordici anni. 

Leggendolo mi soffermavo per capire alcune frasi, ma a volte se non spesso, non capivo. L'ho riletto molti anni dopo trovando nelle pagine ormai ingiallite ancora più mistero e dolore. Un dolore lacerante e persino ironico.

Così quando due anni fa mi è venuto in mente di aprire un blog con l'intento di scrivere quello che non metto sui social, mi sono ripromessa che le prime parole che avrei visto un po' per caso un po' no, e a seconda dell'ispirazione e della frase,  avrebbero dato il nome al blog. E così è avvenuto: "Quest'oggi, niente". Non aveva forse altro da dire quel giorno, Cesare Pavese. Era il 25 aprile 1936, eppure qualcosa ha scritto lo stesso. Il diario come parte di se stessi. Imprescindibile e inscindibile dalla vita. 

Perché la vita è un mestiere, e mistero.