A scuola capitava che qualche insegnante, soprattutto d'italiano, portasse dei giornali per analizzarli insieme. Ricordo che la maestra delle elementari ci faceva ritagliare e incollare su appositi quadernoni le notizie sulla nostra città e lì, in quei quadernoni, sono rimaste. Ricordo anche che alcuni compagni un quotidiano non l'avevano mai visto. E mi stupivo di loro come loro si stupivano di me o di qualcun altro. A casa mia era impensabile non ascoltare il telegiornale all'ora di cena, per esempio, o avere almeno il quotidiano locale girare nelle stanze. Perché, tu guardi il telegiornale, mi disse una volta stupito un compagno. Non era nemmeno una domanda. Era una chiara affermazione, con uno sguardo che non faceva presagire nulla di buono, per me. La strana insomma ero io.
Ora viviamo nell'informazione. Tutti ne abbiamo accesso. Si è sempre connessi, sappiamo o crediamo di sapere. Cose, persone, sembrano vicino ma non lo sono. Gli utenti dei social hanno sentimenti, esperienze, pregi, difetti, eppure anche no. Manca qualcosa. Quello di stamattina già non è più di stasera. Nemmeno noi. Fino a scomparire nel buio della notte. Niente si approfondisce. Tutto rimane in superficie.
La superficie è crosta sui muri, cade giù prima o poi, effimera, come il più facile degli intrattenimenti, come raggiungere la felicità a tutti i costi o un qualsiasi post. Pure questo.