domenica 27 luglio 2025

La truffa (seconda parte)

I giorni, i mesi e gli anni erano diventati indistinguibili, a parte i menù predeterminati di mia madre che mi facevano distinguere il mercoledì per il risotto allo zafferano rispetto al giovedì per gli spaghetti al tonno o il sabato per il brodo di pollo, e le pulizie domestiche ripartite con Ionela che veniva due volte alla settimana. Al lavoro, idem come sopra: il lunedì non differiva dal venerdì. Così non era, come ovvio, per i miei colleghi. Loro il venerdì o per chi era di turno il sabato mattina erano allegri e sorridenti e quanto più si erano divertiti nel fine settimana, meno al rientro erano lieti di cominciare la giornata. A me non cambiava nulla e se vogliamo trovarlo, sarebbe persino, questo, un fattore positivo. Il direttore, se in settimana era di malumore o si indispettiva come suo solito con scatti nervosi che facevano innervosire la persona più calma del mondo, il venerdì cambiava del tutto, sembrava un’altra persona. Soprattutto quando doveva partire con i figli, perché spettavano a lui. Diceva con una certa ridicola enfasi: I ragazzi toccano a me, ce ne andiamo al lago, come se davanti avesse l'ex moglie più che i sottoposti. Elisa conviveva e aveva due figli. Stefano, il neo assunto che credeva di saperne più di me, era fidanzato, e Francesca, divorziata, risposata e una figlia. Avevano argomenti di cui parlare tra di loro, non lesinavano in battute, si confrontavano sui figli. Io che ero la più anziana di tutti, più grande del direttore, più vecchia dell'ufficio, non avevo nulla da raccontare, e non mi coinvolgevano perché c’era ben poco da coinvolgere e avevano ragione, penso. Non avevo da discutere e parlavo solo di lavoro e neanche tanto. Dunque penso che avessero ragione. 
Ascoltavo e quando c'era da mangiare le mie sacrosante ciambelle poteva accadere qualsiasi cosa che nulla mi spostava. Ci fosse stato un distributore automatico, diceva France, sarebbe stato meglio. Non ce lo hanno mai messo. A me non importava nemmeno di quello. 
Se l'avessimo avuto, sicuro che non lo avrei usato perché secondo mia madre quelle macchinette come le chiamava lei, venute su dal niente, così sempre lei, erano gran portatori di germi e, di conseguenza, malattie.
Per quanti sforzi potessi fare non c’era nulla che riuscissi a cambiare. Era già cambiato tutto da un pezzo, da quando mio fratello ci aveva lasciati e tutto rimasto uguale, sempre. 

Un pomeriggio dovevo accompagnare mio padre in centro perché aveva il primo ciclo di infliltrazioni al ginocchio, la clinica si trovava sul Corso Cavour. Eravamo in attesa già da mezz'ora quando la segretaria ci disse che c'era da aspettare perché il dottor Kalidopulos era in ritardo, aveva avuto un contrattempo e oltretutto prima "di noi" c'era un altro paziente. Si scusavano. 
- Vai pure a farti un giro Lili, disse mio padre. - Ma no papà, tranquillo. 
- No vai, vai pure. 
Rispose indifferente. In realtà gli metteva ansia che qualcuno aspettasse con lui. Però chiedeva di accompagnarlo. Insisteva, così dissi: 
Vado a fare un giro per i negozi. Rimango in zona. 

Più che guardare le vetrine camminavo svagata; non avevo alcuna intenzione di fare acquisti, non ci sarebbe stato tempo e anche se lo avessi avuto non trovavo mai nulla che mi stesse bene,  quando sentii un ciao. Mi voltai perché non avevo visto chi fosse la persona incrociata. 
-Mati, ciao, dissi
-Quanto tempo, come stai? chiese lei fermandosi. Al che mi dovetti fermare pure io. 
Non si ricorda il mio nome, pensai.
Era Matilde Ferri, a detta di tutti e non a torto, non solo la più bella della sezione B negli anni scolastici dal 1986 al '91, ma la più bella di tutta la scuola.  Poteva venire vestita con la tuta da ginnastica ed essere elegante comunque. 
Lineamenti perfetti, lunghi capelli biondo cenere, occhi grandi verdi incorniciati da folte ciglia, ancora più folte con l'immancabile rimmel. Denti perfetti, il seno né grande né piccolo, gambe lunghe e affusolate, e un incarnato perlaceo. E non era cambiata di molto. Il tempo con lei non solo era stato indulgente, si era proprio fermato. Fu più cordiale di quanto mi aspettassi o era solo cortesia di facciata poiché, va detto, in gioventù non facevo parte del suo giro. Mi snobbava con grazia, era graziosa anche in questo.
Era in compagnia delle due figlie gemelle, adolescenti, vestite come dovessero fare la cresima, e le dissi che erano molto carine e non poteva essere che così, aggiunsi, e lei rispose sicura:
Grazie, anche se chiedo per loro solo la serenità. La bellezza non è tutto, sai, anzi porta guai. 
Non capivo cosa intendesse, nello specifico. Le figlie erano distratte. Sembravano non sentire. Una delle due si spostò per osservare la vetrina di un ottico vicino. Dissi solo: Capisco. Anche se non capivo un bel nulla. Certo che uno prega per i propri figli la serenità, ma non lo dissi. Lei non disse altro, né io chiesi; parlammo del clima che pareva impazzito e altre amenità.Qualcosa però avevo intuito curiosando il suo profilo Facebook, che lasciava aperto, non avevamo l’amicizia. Oltre a mettere selfie, tutti i giorni e sempre uguali oppure in posa con le spalle nude e noi spettatori vedevamo quello che vedeva lei, qualunque cosa vedesse erano i suoi begli occhi a vedere per noi ed era chiaramente uno spettacolo, di preferenza al crepuscolo, e noi spettatori vedevamo insieme allo spettacolo visto da lei, le sue spalle bianche d'inverno e ambrate nel periodo estivo. Oltre a questo dicevo, avevo già notato che metteva spesso frasi o citazioni sparse riferite alla vita, sul senso della vita, sulle delusioni della vita. Oppure didascalie con scritto, più o meno testuale: La vita dà, la vita toglie e sopra scriveva: Ora penso a me stessa. Meglio star sola e cose del genere. Che la vita dà e toglie lo avevo sperimentato prima di lei, credo. Quanto all'essere single mi disperavo del contrario. Che Mati avesse o stesse soffrendo per amore, però, non era un fatto scontato. Guardavano tutti Mati, io guardavo loro guardare Mati e Mati ora non guardava più nessuno. Mentre sbirciavo il suo profilo dopo averla incontrata quel giorno ricevetti una richiesta di amicizia da uno sconosciuto. Conosciuto quindi grazie alla più bella della scuola, felice di essere single, pentita di essere stata una regina. Mati adesso era sola e io regina mi sarei sentita presto, ma questo non lo sapevo ancora. Non sapevo che i giorni non sarebbero stati più tutti uguali. 

Quando ci salutammo io e lei, oltre a darmi per prima due leggeri baci sulle mie guance senza un velo di cipria, disse: 
Ciao Lili, stammi bene. 

Il mio nome se lo ricordava.