10 ottobre 2022

Ha ancora senso parlare di vita discreta?

Ha ancora un senso nell'epoca in cui viviamo, fatta di iper connessione e di conseguenza una certa sovra esposizione mediatica, parlare di concetti come discrezione, farsi da parte, osservare senza essere osservati? Sembra un compito arduo. Ma basta leggere un saggio uscito nel 2015 dal titolo "L’arte di scomparire – Vivere con discrezione", pubblicato da il Saggiatore, per ricredersi. Adesso sembrerebbe quasi impossibile rispondere alla domanda, visto che sono passati già sette anni dall'uscita. A scriverlo è stato un filosofo francese, Pierre Zaoui.

Qui sotto riporto uno stralcio di un paragrafo del testo, che parla di «Felicità per sottrazione», utile per capire cosa intende l'autore per "arte di vivere con discrezione". Ancora più sotto la copertina del libro.


«A grandi linee, potremmo dire che oggi esistono

due modelli dominanti di felicità. Da una parte, il modello cumulativo,

ultramaggioritario nel sistema capitalista, che situa la felicità nell’avere,

essendo l’apparire stesso ridotto a una forma dell’avere (avere un capitale

sociale…). Essere felice significa avere: soldi, belle macchine, donne,

uomini, gloria, potere. Dall’altra, il modello filosofico, che va fortunatamente

ben oltre i soli filosofi di professione, e che situa la felicità nell’essere –

accumulare falsi beni non serve a nulla, è sufficiente imparare a essere: saggi,

prudenti, temperanti ecc.

L’esperienza della discrezione fa saltare in aria un’alternativa di questo

tipo. Da un lato, è ovviamente all’opposto di ogni accumulazione personale,

perché consiste nel distaccarsi da tutti i beni, esteriori e interiori, senza

negarli, ma collocandosi serenamente accanto a loro. Dall’altro, consiste

similmente nel distaccarsi dal proprio stesso essere, nell’ignorarsi, nello

scomparire a vantaggio delle cose esteriori. Eppure, non si può dire che in

un’esperienza del genere non ci sia più posto per la felicità; al contrario, anzi,

essere distaccati da tutto, sentire che non si ha più nulla da perdere, nulla da

guadagnare, nulla da provare, nulla da mostrare, è spesso proprio una vera

felicità. Dobbiamo dunque concepire un terzo tipo di felicità, che non

poggerebbe né sul possesso e la soddisfazione dei beni esteriori, né sul

possesso e la soddisfazione di sé, il godimento di diventare saggi o anche

semplicemente di diventare chi si è, ma sul distacco simultaneo da sé e dalle

cose.

Una felicità simile, potremmo chiamarla «felicità per sottrazione». Sottrarsi

ai vani giochi delle immagini di sé e delle ambizioni personali; sottrarsi alle

cose che si posseggono come a quelle che non si posseggono; sottrarsi alla

paura di perdere come alla paura di non aver più nulla da perdere – di essere

senza mancanza, senza vuoto, senza movimento, morti. Perché, certo, una

simile felicità istintivamente fa un po’ paura, sembra del tutto prossima al fantasma dell’abbandono o alla grande rinuncia nichilista. Ma è perfettamente

possibile e persino facile superare questa paura non appena ci rendiamo conto

che questa sottrazione non è che un momento, felice da vivere, ma anche felice

da veder passare, per reimbarcarsi nella vita con la sua ruota perpetua di

impegni e delusioni, di speranze e disillusioni. Vale a dire, dal momento in cui

ci ricordiamo ancora una volta del carattere intrinsecamente discontinuo della

discrezione. Non è la libertà a rendere felici, ma la continua liberazione, il

distacco, l’affrancamento, l’uscita dall’alienazione. Ma per distaccarsi o

liberarsi, bisogna pur essersi inizialmente attaccati o fatti prendere, e per

distaccarsi ancora bisogna ben accettare di attaccarsi ancora, senza fine. La

discrezione rende felici soltanto in modo ciclico, come sospensione, battuta di

arresto e di rilancio, vuoto fecondo, contrazione in attesa di una nuova

espansione, disimpegno in attesa di una nuova presa.

In questa prospettiva, certo, non è più possibile concepire una felicità

eterna, definitiva, sicura. E non si può neppure considerare la felicità come il

fine supremo dell’esistenza: non è che un momento di attesa tra due duri sforzi,

sempre nel mezzo della vita, mai alla morte. Ma è forse un male? Possiamo

scommettere piuttosto che le società che si consacrano anima e corpo alla

pursuit of happiness non solo non la raggiungono, ma sono società

profondamente malate. La salute, al contrario, è consacrarsi a scopi un po’ più

elevati e definiti della felicità: la libertà, la bellezza, la giustizia, la verità, la

creazione o l’eccellenza. Ora, in questo tipo di salute, è giocoforza constatare

che i soli momenti di felicità che possono ancora esserci accordati sono quelli

in cui sappiamo farci discreti, lasciare in pace gli altri e noi stessi e andare a

distenderci tranquilli nelle praterie domenicali della vita.

In questa prospettiva, l’altro nome che possiamo dare a questa «felicità per

distrazione» è disponibilità. Essere discreti non significa abbandonare il

mondo e gli altri per una vita interiore più profonda, ma significa al contrario

essere disponibili nei confronti di tutto ciò che di buono o di cattivo può

accadere intorno a noi. La disponibilità è fatta per abdicare di continuo a se

stessa, ma sempre momentaneamente».