Ha ancora un senso nell'epoca in cui viviamo, fatta di iper connessione e di conseguenza una certa sovra esposizione mediatica, parlare di concetti come discrezione, farsi da parte, osservare, stare dentro le cose, senza essere osservati? Sembra un compito arduo. Ma basta leggere un saggio uscito nel 2015 dal titolo "L’arte di scomparire – Vivere con discrezione", pubblicato da il Saggiatore, per ricredersi. Adesso sembrerebbe quasi impossibile rispondere alla domanda, visto che sono passati già sette anni dall'uscita. A scriverlo è stato un filosofo francese, Pierre Zaoui.
Qui sotto riporto uno stralcio di un paragrafo del testo, che parla di «Felicità per sottrazione», utile per capire cosa intende l'autore per "arte di vivere con discrezione". Ancora più sotto la copertina del libro.
«A grandi linee, potremmo dire che oggi esistono due modelli dominanti di felicità. Da una parte, il modello cumulativo, ultramaggioritario nel sistema capitalista, che situa la felicità nell’avere,essendo l’apparire stesso ridotto a una forma dell’avere (avere un capitale sociale…). Essere felice significa avere: soldi, belle macchine, donne,uomini, gloria, potere. Dall’altra, il modello filosofico, che va fortunatamente ben oltre i soli filosofi di professione, e che situa la felicità nell’essere – accumulare falsi beni non serve a nulla, è sufficiente imparare a essere: saggi,prudenti, temperanti ecc.
L’esperienza della discrezione fa saltare in aria un’alternativa di questo tipo. Da un lato, è ovviamente all’opposto di ogni accumulazione personale, perché consiste nel distaccarsi da tutti i beni, esteriori e interiori, senza negarli, ma collocandosi serenamente accanto a loro. Dall’altro, consiste similmente nel distaccarsi dal proprio stesso essere, nell’ignorarsi, nello scomparire a vantaggio delle cose esteriori. Eppure, non si può dire che in un’esperienza del genere non ci sia più posto per la felicità; al contrario, anzi, essere distaccati da tutto, sentire che non si ha più nulla da perdere, nulla da guadagnare, nulla da provare, nulla da mostrare, è spesso proprio una vera felicità. Dobbiamo dunque concepire un terzo tipo di felicità, che non poggerebbe né sul possesso e la soddisfazione dei beni esteriori, né sul possesso e la soddisfazione di sé, il godimento di diventare saggi o anche semplicemente di diventare chi si è, ma sul distacco simultaneo da sé e dalle cose.
Una felicità simile, potremmo chiamarla «felicità per sottrazione». Sottrarsi ai vani giochi delle immagini di sé e delle ambizioni personali; sottrarsi alle cose che si posseggono come a quelle che non si posseggono; sottrarsi alla paura di perdere come alla paura di non aver più nulla da perdere – di essere senza mancanza, senza vuoto, senza movimento, morti. Perché, certo, una simile felicità istintivamente fa un po’ paura, sembra del tutto prossima al fantasma dell’abbandono o alla grande rinuncia nichilista. Ma è perfettamente possibile e persino facile superare questa paura non appena ci rendiamo conto che questa sottrazione non è che un momento, felice da vivere, ma anche felice da veder passare, per reimbarcarsi nella vita con la sua ruota perpetua di impegni e delusioni, di speranze e disillusioni. Vale a dire, dal momento in cui ci ricordiamo ancora una volta del carattere intrinsecamente discontinuo della discrezione. Non è la libertà a rendere felici, ma la continua liberazione, il distacco, l’affrancamento, l’uscita dall’alienazione. Ma per distaccarsi o liberarsi, bisogna pur essersi inizialmente attaccati o fatti prendere, e per distaccarsi ancora bisogna ben accettare di attaccarsi ancora, senza fine. La discrezione rende felici soltanto in modo ciclico, come sospensione, battuta di arresto e di rilancio, vuoto fecondo, contrazione in attesa di una nuova espansione, disimpegno in attesa di una nuova presa.
In questa prospettiva, certo, non è più possibile concepire una felicità eterna, definitiva, sicura. E non si può neppure considerare la felicità come il fine supremo dell’esistenza: non è che un momento di attesa tra due duri sforzi, sempre nel mezzo della vita, mai alla morte. Ma è forse un male? Possiamo scommettere piuttosto che le società che si consacrano anima e corpo alla pursuit of happiness non solo non la raggiungono, ma sono società profondamente malate. La salute, al contrario, è consacrarsi a scopi un po’ più elevati e definiti della felicità: la libertà, la bellezza, la giustizia, la verità, la creazione o l’eccellenza. Ora, in questo tipo di salute, è giocoforza constatare che i soli momenti di felicità che possono ancora esserci accordati sono quelli in cui sappiamo farci discreti, lasciare in pace gli altri e noi stessi e andare a distenderci tranquilli nelle praterie domenicali della vita.
In questa prospettiva, l’altro nome che possiamo dare a questa «felicità per distrazione» è disponibilità. Essere discreti non significa abbandonare il mondo e gli altri per una vita interiore più profonda, ma significa al contrario essere disponibili nei confronti di tutto ciò che di buono o di cattivo può accadere intorno a noi. La disponibilità è fatta per abdicare di continuo a se stessa, ma sempre momentaneamente».